Tredici

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Non capiva.
Non capiva perché si dovesse comportare in quel modo e soprattutto non capiva cosa diamine fosse quel solletico che le torturava lo stomaco.
Che avesse qualche specie di malore? Che fosse solo l'ansia che le causava quel ragazzo?
Appena arrivò in bagno si guardò allo specchio, sentendo ancora quel fastidio.
Avrebbe voluto rigettare tutto, sperando che le passasse, ma non lo fece.
Non lo fece perché non poteva lasciare che una stupida novità facesse crollare tutto il suo sistema.
Tornò in classe e mano a mano che le ore scorrevano, quella spiacevole novità finì per sparire, lasciando spazio solo alla fame dovuta alla giornata di digiuno.
Quando la campanella suonò, sì infilò il cappotto, dirigendosi verso l'uscita.
Mentre percorreva le scale, un pensiero le attraverso il cervello: avrebbe voluto rivederlo.
Scosse la testa, aumentando il passo per uscire in fretta da quel posto per potersi recare a casa e stare finalmente in pace.

Il silenzio era l'unica cosa che occupava l'ambiente. Lasciò lo zaino vicino all'ingresso e andò subito in cucina per procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti; aprendo il frigorifero, però, si rese conto che non aveva più nulla.
Sbuffò, chiudendo l'anta con un suono secco. Non aveva nessuna voglia di uscire a fare la spesa, quindi rimaneva un'unica possibilità: i suoi genitori.



- Tesoro...
La madre sembrava molto stupita quando le aprì la porta e se la trovò di fronte.
- Ciao, mamma... Non ho più nulla in casa, posso prendere qualcosa da voi?
La voce della ragazza era piatta, priva di emozioni.
- Oh... Certo...
Claudia si sarebbe aspettata che la figlia fosse almeno più cordiale, quel tono non le piaceva, per niente.
Bianca entrò, recandosi subito in cucina per trovare qualcosa che la soddisfacesse.
Dire che si sentiva a disagio forse non era l'aggettivo giusto, ma stare in quella casa non le dava tranquillità.
Forse perché i suoi genitori credevano fosse lesbica.
Forse perché appena avevano trovato una buona occasione per mandarla via l'avevano fatto.
Forse perché lei non era fatta per avere intorno nessuno.
- Mi dispiace... - disse Claudia, facendo sussultare sua figlia che si girò verso di lei di scatto, con ancora la scatola di biscotti in mano.
- Di cosa?
- Per aver pensato che fossi lesbica. - La donna avanzò di qualche passo, verso di lei. -Tesoro, non volevamo turbati... Credevamo solo che se fosse così non ce lo volessi dire per paura di ferirci... E volevamo farti capire che non ci avrebbe cambiato la vita, perché noi ti vogliamo bene così - concluse, arrivandole di fronte e guardandola negli occhi.
Le volevano bene.
Forse era vero, forse no, ma poco importava in quel momento.
Aveva sua madre di fronte che le stava parlando con il cuore in mano e l'unica cosa a cui riusciva a pensare era che aveva fame.
- Va bene, non fa niente.
Prese altre due cose dalle varie credenze e si diresse verso l'ingresso.
Prima di uscire, però, sentì un singhiozzo sommesso, provenire dalla cucina.
Si chiuse la porta alle spalle e qualcosa scattò dentro di lei, un'altra cosa nuova.
Voleva piangere, far uscire tutto ciò che si portava dentro che la faceva marcire da anni, ma non poteva lasciarsi andare. Era una ragazza forte, doveva credere di esserlo o sarebbe stata la sua fine.



Fare i compiti si stava dimostrando più difficile del previsto. Non riusciva a concentrarsi su nessuna parola scritta su quei dannati libri, sentiva che c'era qualcosa che non andava, sentiva un fastidio tra lo stomaco e il cuore, ma non era qualcosa di fisico.
Non sarebbe riuscita a spiegarlo, non poteva spiegarlo.
Era un continuo scoprire nuove emozoni, nuove sensazioni, nuovi tormenti e la questione non le andava giù.
Si alzò, diretta verso il bagno, si spogliò di tutti i vestiti ed entrò nella doccia, forse quella le avrebbe schiarito le idee.
Iniziò ad insaponarsi e il getto d'acqua che le massaggiava le spalle la fece rilassare, anche se la sua mente non aveva intenzione di fermarsi.
Jason, sua madre, se stessa, tutto era un miscuglio di situazioni incomprensibili, oscure.
Cosa mi succede? pensò, mentre nella sua mente c'era solo un'immagine fissa, più nitida di tutto quel caos: Jason.
Lui era la chiave di tutto, lui era il suo tormento e lui poteva essere l'unico a fermare tutto quello.
Uscì dal bagno, vestendosi in modo adeguato per passare il resto della serata in casa; si asciugò i capelli velocemente e se li raccolse in una coda disordinata, mentre si guardava allo specchio.
Si fermò ad osservare, per la prima vera volta, il suo aspetto.
Si piaceva? Non si piaceva?
Non lo sapeva, poteva essere neutrale nei confronti di se stessa?
Poteva non esprimere un giudizio?
Giudizio.
Quella parola le faceva storcere il naso.
Tutti dovrebbero imparare ad accettare se stessi e i propri difetti, ma chi ci riesce davvero? Esiste qualcuno in grado dirsi realmente: "Sì, mi sento bene con me stessa, con il mio corpo e con il mio carattere"?
No. No e no.
E lei, davanti a quel dannato specchio, davanti al suo viso leggermente arrontondato, il corpo formoso e il suo carattere chiuso e malato, non sapeva cosa pensare.
Si chiese da cosa nasce il giudizio. O forse sarebbe meglio dire, la paura del giudizio.
Tutti giudicano tutti, per un dettaglio o per un altro, ma a lei non importava, perché riteneva tutti delle persone inutili.
Che fosse quello il punto?
Se non ti interessa piacere agli altri, non c'è nessun motivo per temere un giudizio e non c'è motivo per sentirsi o non sentirsi bene con se stessi.
Era neutrale a se stessa.
Impossibile? Pazzo? Strano? Che importanza aveva?
Tutte le sue riflessioni sarebbero rimaste per sempre nella sua mente, senza essere condivise con nessuno, quindi non aveva neanche motivo di fare ragionamenti elaborati.
Si infilò una maglia a maniche lunghe e un paio di leggins rovinati per poi rintanarsi sotto le coperte, nel buio della sera e della sua stanza.
Prese il telefono e si mise a scrivere.
Sì, sentiva la necessita di sfogarsi, scrivendo qualunque cosa le passasse per la mente. Iniziò anche a cantare, mentre le dita correvano veloci sulla tastiera del telefono: My Kind of Love di Emili Sandé.
Le parole del testo si confondevano con quelle lasciate impresse nello schermo, un miscuglio, di nuovo, di emozioni, sensazioni e novità; un caos che cercava di mettere a posto, espellendo tutto.
Qualcosa di bagnato le scivolò sul viso, lentamente. Sussultò, lasciando andare l'oggetto dalle sue mani e facendolo ricadere sulle proprie gambe.
Non voleva, non poteva, non era giusto, eppure lo stava facendo: stava piangendo, si stava lasciando andare.
"Smettila, sii forte, non debole come tutti gli altri! Tu non sei come loro, non piangi, non esterni nulla, smettila!"
Continuava a ripetersi nella mente quelle parole, ma ormai era troppo tardi.
E fu così che il suo corpo fu scosso da singhiozzi incontrollabili, da tutto quel malessere che portava dentro, ma di cui non si era mai resa conto.




Non si era mai sentita così.
In colpa.
Aveva ceduto ad una stupida debolezza, era stata idiota a crollare in quel modo e non riusciva a concepirne il motivo.
Sapeva solo che non sarebbe più dovuto accadere.
Si vestì in fretta, non badando molto al suo outfit, ed uscì da casa per prendere il pullman. Alla fermata i ragazzi sembravano essere più in fermento del solito, ma forse era una sua impressione; appena arrivò il mezzo, vi salì senza dar peso a nessun altro.
Era arrabbiara, molto arrabbiata con se stessa.
Non doveva piangere, non doveva cedere, non doveva e invece l'aveva fatto.
Si odiava.
No, odio era troppo, però si detestava, se stessa e il suo comportamento.
Arrivata a scuola si defilò nei sotterranei senza neanche pensarci, cercando il posto del giorno precedente.
Tornare lì non aveva alcun senso, però in qualche modo sentiva la necessità di isolarsi e in quel posto non ci andava nessuno. O almeno ci sperava.
Intanto, mentre camminava spedita verso quel luogo, era partita Addicted to You di Avicii.
Quel ritmo così incalzante la stava trascinando davanti a quella porta, la porta della libertà.
Non capiva perché le desse quella sensazione, ma appena varcò la soglia e prese un respiro profondo, qualcosa cambiò di nuovo. L'aria era fredda, pungente, le scalfiva la gola ad ogni respiro che prendeva; iniziò a inspirare ed espirare sempre più velocemente, mentre sentiva la gola bruciare, come se tanti coltelli la stessero scalfendo dall'interno.
Si fermò solo quando le fecero male i polmoni.
Barcollò, destabilizzata, iniziando a vedere qualche puntino davanti a sé. Cercò un appoggio, abbassandosi di poco e tastando con le mani; ogni respiro che prendeva per calmarsi sembrava farle ancora più male, ma se avesse smesso di respirare probabilmente sarebbe svenuta.
Trovò il masso di cemento su cui si era seduta e vi si accasciò contro, adagiando le braccia sulla superficie.
-Jason...
Un sussurro, flebile, inudibile da chiunque.
Lo stava chiamando, lo stava pensando, lo voleva con lei, in quel momento.

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