Quattordici

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La classe era deserta.
Guardò l'orario sul suo telefono: erano le otto e sette.
Sarebbero dovuti essere tutti in classe già da un pezzo. Si sedette al suo banco, tirando fuori l'occorrente per la materia della prima ora; i suoi occhi si fermarono in un punto impreciso della stanza e si ritrovò a pensare a qualche minuto prima, distesa accanto a quel sostegno, al suo sostegno.
Sfiorò la sua gola con le dita, provando del lieve fastidio quando inalava dell'aria.
Non si era mai arrabbiata così, non aveva mai provato emozioni così forti, era sempre stata calma e indifferente a tutto.
Cosa stava cambiando?
Jason e Derek.
Ecco cosa le stava succedendo.
"Derek ha un debole per te ed è mio dovere assicurarmi che non si faccia male".
Le parole di Alessia le ronzarono nella mente.
Sbatté un pugno sul banco, digrignando i denti.
Era stufa di tutto quello, voleva porre fine a quelle novità che le stavano rovinando la vita.
Doveva parlare con Jason, al più presto.




- Perché ti ostini così? - chiese il ragazzo, spazientito.
- Non mi ostino, come vedi non le rivolgo neanche la parola! - rispose il biondo, sbuffando e spostando lo sguardo altrove.
- Meglio, lasciala in pace... Non capisco cosa ci trovi in lei, davvero.
Jason prese un respiro profondo e si appoggiò allo stipite della porta.
- Non lo so, fratello... È diversa... È strana, mi attira, è come una calamita e io sono il magnete... Capisci?
Derek si avvicinò al fratello, sperando che comprendesse le sue parole, ma a lui non interessavano delle stupide metafore.
- Derek, è solo una ragazzina chiusa e sola, perché devi rovinarle la vita introducendola nella nostra? Non ti basta Alessia?.
Questa volta Jason non aveva un tono calmo, si stava alterando; non capiva come volesse a tutti i costi avvicinarsi alla prima stramba che gli capitava sotto il naso.
- Smettila Jas!
Il biondo sferrò un pugno contro la parete accanto al ragazzo, ma questo non si scompose. - Se non capisci, allora stanne alla larga! Lasciami fare come cazzo mi pare e non ti intromettere! Lo so che la nostra vita è un casino, lo so che non dovremmo portare altri problemi nelle nostre vite, ma non ci posso fare nulla se mi attira! Quel suo modo di essere, così introversa, ferma, decisa, acida, stronza, ma in realtà è tutto l'opposto! Jason devi lasciarmi stare perché ho capito che devo starle lontano... Ma vale anche per te...
Il moro scattò, al pronunciare del fratello dell'ultima frase.
Cosa stava insinuando? Lui non le stava attorno, non era colpa sua se le capitava fra i piedi.
- Vedi di starle tu alla larga per primo, io sto facendo di tutto per allontanarla da noi! Quindi non venire a dirmi che sono io che devo tenermi lontano!
Dicendo ciò si avventò sul fratello, arrivandogli ad un palmo di naso. Le sue iridi scure erano impresse in quelle chiare di Derek, due poli opposti che si scontravano, due mondi paralleli che entravano in collisione.
Un paradosso.
La fine.
- Non parlarmi così.
Il tono fermo di Derek fece venire la pelle d'oca al fratello, che deglutì, rimanendo però nella stessa posizione. Non si sarebbe tirato indietro di fronte alla superbia del biondo, nonostante fossero fratelli erano diversissimi e sapevano benissimo entrambi il motivo. Come ne era a conoscenza Alessia.
- Dovresti andare da Sia... - rispose Jason, provando a sviare la conversazione.
- Vuoi solo che mi calmi, vero?
- Sarebbe meglio e lei sa come fare...
Jason si allontanò dal fratello, tornando all'interno dell'edificio.
- Sai che non scopiamo più, ora è solo la mia migliore amica...
Derek avanzò verso l'entrata, seguendo il moro.
- Lo so, come so cos'avete passato... E so che anche se non scopate, può comunque aiutarti... Ti è stata accanto tutto questo tempo.
- Fratello, non ricordarmi quella merda...
Camminarono entrambi verso le rispettive aule, dato che l'intervallo era concluso.
- Non voglio ricordartelo... È una cosa ancora presente e lo sai bene, per questo Alessia è con noi.
- Lo so, lo so! Cazzo, Jason, lo so!
La voce greve del ragazzo risuonò per il corridoio e il moro sospirò, avvicinandosi al fratello e mettendogli una mano sulla spalla.
- Sai che ti voglio bene, vero?
Derek lo guardò con le pupille dilatate.
- Nonostante tutto?
- Nonostante tutto.



Scese di corsa le scale, quando ormai tutti se n'erano andati.
Voleva vedere se fosse a scuola, se ancora si aggirasse per i corridoi di quell'edificio deserto.
Sapeva che il pullman sarebbe passato entro quindici minuti, ma non resisteva, doveva trovarlo, doveva parlarci.
Si ritrovò per l'ennesima volta davanti alla porta che conduceva verso l'esterno del seminterrato. Deglutì, ricordandosi solo di qualche ora prima. Un brivido le attraversò il corpo e, dopo qualche secondo di indecisione, spinse la porta, uscendo.
A prima vista non c'era nessuno, il venticello che soffiava era l'unico suono udibile e Bianca ne rimase per un attimo all'ascolto. Era delusa, forse; voleva togliersi il peso che aveva sullo stomaco, ma se non parlava con lui non ce l'avrebbe mai fatta.
- Sempre qua sei?
Il suono della sua voce la fece voltare di scatto, trovandoselo di fronte. I loro corpi quasi si sfioravano e in qualsiasi altra circostanza si sarebbe allontanata da quel contatto, ma aveva altro per la testa.
- Devo parlarti - affermò con tono solenne.
Lui sollevò le sopracciglia per poi sorridere in modo beffardo.
- Non stiamo neanche insieme e già mi vuoi parlare? Andiamo bene.
Rise in modo goffo, mentre la ragazza lo osservava, impassibile.
- Stai lontano da me, non voglio più avere a che fare con te o con tuo fratello e soprattutto con quella mora, ci siamo capiti?
Era fredda e distaccata. Lui smise di ridere e la guardò serio, i suoi lineamenti si indurirono e strinse il pugno sul fianco.
- Sei tu che sei qui, sei tu che sei in mezzo ai coglioni, quindi non venire da me a dire ste cazzate se quella che non si stacca sei tu, piccola malata.
Bianca sgranò lentamente gli occhi.
Malata.
Era malata.
Era lei quella che continua a pensare a lui, era lei quella che si stava facendo mille paranoie, quando loro neanche avevano fatto nulla di eccezionale, se non scambiare quattro parole in croce.
Stava facendo tutto lei e aveva anche il coraggio di dare la colpa a qualcun altro.
Indietreggiò di qualche passo, traballando, mentre lo sguardo era ancora fisso sul viso tirato di Jason. Lo soprassò in fretta, sentendo la gola bruciare e gli occhi pizzicare.
No.
No, se lo era vietato.
No, non doveva, non poteva e non lo avrebbe fatto.
Entrò nell'edificio e si fermò un attimo, prendendo fiato, più che altro per non far emergere quella fragilità che teneva dentro.
Non capiva.
Odiava non capire qualcosa.
Il dubbio la distruggeva dall'interno, divorandole il cervello.
La non conoscenza la portava a riflettere su tutte le possibilità fino a consumarla, lentamente.
Erano anni che si stava consumando, sola, con il suo cervello come unico compagno.
Era stufa di pensare, anche se quella era la caratteristica che la contraddistingueva dalla massa, dalla gente che definiva stupida.
Non poteva smettere di pensare e diventare come loro. O forse aveva sempre creduto di essere diversa, quando in realtà era esattamente come loro. Stupida e ingenua. Magari era anche peggio di loro.
Improvvisamente, mentre stava ancora tentando di non crollare, si sentì prendere per un braccio, ritrovandosi girata verso Jason.
- Scusa, scusami non volevo.
Aveva il respiro corto, probabilmente aveva corso.
Scusarsi? Di cosa? Della verità?
- Hai ragione.
Bianca cercò di levarsi dalla sua presa, ma lui la stringeva con una tale intensità che avrebbe potuto amputarle il braccio, se solo avesse voluto.
- No, hey, mi dispiace, ok? Non volevo dire quelle cose, tu... Tu non sei malata ok? Scusa.
I suoi occhi erano diversi, non più duri e tetri, erano più lucidi, chiari, addirittura. Bianca analizzò le sue parole con attenzione. Si stava scusando per averle dato della malata, quando ormai lo faceva chiunque.
- Hai ragione - ripeté, guardando la mano che teneva stretta su di lei.
- Smettila di dire che ho ragione, Cristo! Cazzo, basta! Vattene!
Lasciò la presa sulla ragazza e lei fece come ordinatole, allontanandosi per poi salire le scale e sparire dalla vista di lui.
Era nervoso, incazzato, ma solo con se stesso.
Aveva chiesto scusa ad una stupida ragazza, per cosa? Per averle detto ciò che ormai si sentiva dire ogni giorno?
Non era da lui, lui se ne fregava dei sentimenti degli altri, a meno che fossero di persone a cui teneva veramente. E lei non faceva parte di quelle persone.
Allora perché si era allarmato così tanto quando l'aveva vista correre via in quel modo?
Uscì di nuovo, andando alla ringhiera che dava una bella vista dell'esterno della scuola e la vide. Si stava avviando verso la fermata degli autobus, la seguì con lo sguardo, vedendo che si passava le mani sul viso. Si accese una sigaretta e la fumò con nervosismo. L'aveva fatta piangere.

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