Sedici

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La vide camminare lentamente verso le scale per poi sparire.
Rimase a fissare quel punto per qualche secondo per poi sospirare sconfitto.
Lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle, accendendosi immediatamente una sigaretta.
Aveva davvero invitato Bianca ad uscire con lui, nel suo posto, nella sua zona di tranquillità, nel suo rifugio.
In fondo, però, lei non gli dava fastidio come le altre ragazze; il genere femminile è noto per la sua parlantina continua, che ti sfonda i timpani con delle frivolezze di cui non importa a nessuno.
Con lei era già molto se si riusciva a toglierle una sillaba, quindi, in fin dei conti si stava bene in sua presenza.
Certo, c'era quell'alone strano che la circondava e lui non riusciva a capire se fosse solo la sua personalità chiusa o se nascondesse qualcosa.
Doveva starle alla larga, come lei doveva stare alla larga da lui, da loro, dai problemi che li circondava.
Schiacciò il mozzicone della sigaretta con il piede e rimase ad osservare il cielo aprirsi lentamente; la punizione che la preside gli aveva inflitto non era poi un granché, ma stare a scuola oltre l'orario scolastico non gli piaceva per niente. Solo, in un ambiente così vasto, silenzioso, per tutto il pomeriggio, non gli andava.
La solitudine se la doveva cercare da sé, quando aveva bisogno di riflettere, ma forzata non gli faceva assolutamente bene, anzi, lo danneggiava.
Per questo non capiva Bianca; come faceva una persona ad estraniarsi nel suo mondo per così tanto tempo?
Come poteva sopravvivere con tutto ciò che il cervello le ricordava?
Come poteva non sentire il peso opprimente della propria mente presentarle dei ragionamenti così profondi?
Magari non è così intelligente, pensò, ma subito scosse la testa mentre una ventata di aria gelida lo fece rabbrividire.
Doveva per forza essere una ragazza intelligente, lo si vedeva dal suo modo di vestire, di osservare le persone; poi, comunque, aveva dato uno sguardo ai suoi voti ed erano tutti molto buoni.
Il telefono vibrò nella sua tasca, riportandolo alla realtà. Doveva smettere di pensare a lei.
- Jason, dove cazzo sei? - sbraitò suo fratello, facendo sbuffare il ragazzo.
- Al solito posto, ora arrivo.
Chiuse la chiamata senza curarsi dell'eventuale risposta.
Era ora di tornare alla realtà.
Sfiorò con la mano destra il dorso della sinistra, passando le dita sull'inchiostro del tatuaggio e percorrendone ogni tratto; arrivò a quel piccolo rilievo, continuando a passarci le dita, fino alla fine di quello strano simbolo tribale.
No, non sapeva cosa volesse dire quel dannato tatuaggio, ma quando era andato dal tatuatore, era lì, appeso alla parete, il più grande che c'era.
Non ci pensò due volte e lo scelse.
Lo scelse perché obbligato; obbligato a nascondere quella cicatrice, quel segno che sapeva lo avrebbe inseguito per tutta la vita, ricordandogli il dolore di quel giorno.
Tirò giù la manica e si avviò verso il fratello, tornando, purtroppo, alla realtà.



Bianca aveva deciso di esternare tutto sulle note del proprio telefono. Non scriveva mai, solitamente ascoltava musica e cantava a ritmo, anche non sapendo esattamente le parole; ma ormai era ovvio che qualcosa stesse cambiando dentro di lei, qualcosa la stava portando alla deriva e scrivere le sembrava un buon modo per affogare il suo dolore.
"Fossi diversa, fossi migliore,
Fossi come luce che trasmette amore.
Sarei guardata? Sarei ammirata?
Sarei davvero grata?
Non si può desiderare il Diavolo
Senza un peccato.
Uccelli in volo
Un tuono, un boato.
Orizzonte infinito,
Senza neanche più fiato,
Percorro il sentiero,
Duro,
Scuro,
Mi inoltro nel buio,
Trascino, cammino,
Barcollo di nuovo,
Come ubriaca
Come alterata.
La terra cede, il corpo cade,
Il buio, di nuovo
E svengo nel tormento della mia anima
Mi sento rinata,
Vedendo il suo volto soave,
Lo vedo,
Mi ama."
Rimase a fissare lo schermo per qualche secondo, perplessa.
Amore?
Da dove diavolo saltava fuori quel sentimento?
Lei non provava amore, né sentimenti rilegati a quell'argomento.
Poi, volto di chi?
Eliminò la nota, lasciando il telefono sul letto, accanto ai suoi piedi; si alzò con cautela e aprì la finestra.
Il sole stava calando e il freddo pungente si stava solo rafforzando.
Chiuse tutto e si voltò verso il letto, osservando la sua stanza, in cui la musica risuonava indisturbata. Quelle emozioni le stavano invadendo il cervello, continuava a chiedersi il perché di tutto ciò, il motivo di quella schifosa poesia che si era ritrovata a scrivere.
Dante si sarebbe rivoltato nella tomba, seguito da Petrarca.
Guardò la scrivania, ricordandosi dell'interrogazione inglese.
Un'imprecazione spontanea le si formulò nel cervello, immergendosi subito nello studio; Oscar Wilde non poteva certo aspettare.



Incubi.
Quella notte era stata costellata da continui incubi.
Fiamme, grida, corpi sudati che ansimavano. Invocavano Dio in contuazione, mentre si muovevano uno sopra l'altro, cercando un contatto sempre più intimo.
Si svegliò di soprassalto, rabbrividendo, mentre ancora l'immagine del suo viso contratto in una smorfia di piacere le stravolgeva la mente.
Come poteva avere fatto un sogno erotico?
Si tolse le coperte dal corpo, sentendo una strana sensazione nel basso ventre, insieme ad un calore estremamente fuori stagione.
Andò a sciacquarsi il viso in bagno per poi controllare l'ora sull'orologio appeso in salotto. Le tre passate.
Tornò nel suo letto, ripensando a quel sogno assurdo.
La ragazza era lei, si era riconosciuta, ma chi era che le stava sopra?
Rimase a fissare il soffitto della sua stanza, finché il sonno si ripresentò al suo cervello, che finalmente era stufo di stare attivo.


Il mal di testa che le si presentò la mattina dopo era lancinante.
Non si ammalava mai, le sue difese immunitarie forse erano rafforzate dal fatto che non prendeva mai medicine. Quell'inconveniente proprio non ci voleva, soprattutto nel giorno di un'interrogazione.
Prese il pullman, ma i mormorii erano decisamente più forti quel giorno e le frastornavano le orecchie. Lei, che era abituata ad osservare tutti, in quel momento avrebbe solo voluto che facessero silenzio e stessero immobili per non darle il tormento; ma l'unica cosa che ottenne fu l'aumentare di quel baccano.
Provò a rifugiarsi in bagno, ma le primine avevamo deciso di scambiarsi i piccoli segretucci proprio quella mattina; provò a dirigersi in qualche angolo remoto della scuola, ma ogni suono sembrava seguirla come un'ombra.
Si decise.
Il sotterraneo era l'unica occasione di pace.
La porta non era stata richiusa a chiave, o forse Jason aveva solo deciso di riaprirla, così uscì, respirando quell'aria di autunno inoltrato.
Degli occhi si posarono sulla sua figura e lei li notò quasi subito, guardando anch'ella il ragazzo.
- Mi pedini? - chiese lui divertito, squadrandola con la sigaretta tra le labbra.
- No, avevo bisogno di stare sola - rispose, spostando lo sguardo sul paesaggio esterno.
- Ah, io non me ne vado, sappilo.
- Non importa, sarei sola comunque. Jason la guardò interrogativo. - Credo sia il destino - aggiunse.
- Destino?
Lei lo guardò, ma non disse nient'altro; aveva già detto troppo.
- Quindi? - la esortò lui, continuando a fissarla in attesa di una risposta.
- Niente, parlavo tra me e me - rispose semplicemente, continuando ad evitare il suo sguardo. Lui si avvicinò a lei, fino a pararlesi di fronte.
- Allora parla con me.
Subito si maledisse mentalmente per quella stupida affermazione.
Doveva starle lontano ma le proponeva di parlare con lui? Stupido idiota.
Anche lei parve sorpresa, guardandolo e aprendo leggermente gli occhi.
- Perché dovrei? - chiese circospetta.
- Hai ragione, il tuo mondo è pur sempre migliore... Ma ricorda che non potrai viverci per sempre. La vita reale verrà a bussare e ti trascinerà con lei di forza, traumatizzandoti per sempre...
Probabilmente non stava neanche più parlando con lei.
Si toccò il dorso della mano sinistra e Bianca lo notò, portando la sua attenzione al tatuaggio.
- Tu non sai nulla di me - replicò, alzando gli occhi sul suo viso.
- E tu non sai un cazzo della vita - sputò, tornando a guardarla negli occhi.
Un lampo gli attraversò il volto contratto in un'espressione furibonda, facendogli afferrare il polso della ragazza, che subito sussultò al contatto. - Sei solo una piccola asociale... - lei lo interruppe bruscamente.
- Malata, forse? - gridò, dando sfogo ai suoi pensieri più reconditi.
Sì, le parole che lui le aveva rivolto le erano ancora inchiodate nel cervello come un promemoria eterno.
Lui serrò la mascella, continuando a guardarla.
Sentiva la sua rabbia diffondersi nel suo corpo.
- Mi dispiace avere contaminato il tuo piccolo posto segreto - continuò, sempre più alterata, mentre cercava di levare il suo polso da quella morsa.
La testa le stava esplodendo, il sangue le pompava talmente velocemente da sentirlo addirittura nelle orechie, insieme ad un fischio fastidioso.
- Non ho mai detto questo - si difese lui, lasciando la presa.
- Beh, me ne vado lo stesso - soffiò, portandosi le mani sulle tempie doloranti.
Chiuse gli occhi e fece un passo indietro, facendo un respiro profondo.
Il corpo era diventato pesante e un sonno improvviso si stava impossessando di lei.
Che fosse perché aveva dormito poco?
- Ti senti bene? - chiese lui, immobile a scrutarla.
- S... Sì - rispose in un sussurro, mentre il respiro le si faceva sempre più intenso.
- Sei pallida... - constatò l'altro e lei scosse la testa, forse con troppa frenesia, poiché si ritrovò ad attaccarsi alla felpa del ragazzo, per sorreggersi.
Lui, dal canto suo, la strinse prendendola per i fianchi, mentre la presa di lei si faceva sempre più intensa, disperata.
Cercava un appoggio, non solo fisico; le serviva qualcosa che la sostenesse anche dentro, dentro tutto quel caos.

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