HAGGERTY mi aveva consigliato di dormire, ma non ci sarei mai riuscita. Ero decisamente su di giri e sentivo il bisogno di muovermi. Non sapevo neanche dove sarei andata, ma di certo non potevo rimanere in cabina. Decisi di recarmi nella Queens Room per vedere se trovavo Stanton, Jennifer , Kiki o Harry. I passeggeri che si erano goduti la cena e gli intrattenimenti della serata stavano accingendosi ad andare a dormire. Tuttavia erano ancora in molti ad aver deciso di prolungare la serata, anche se purtroppo non i quattro che cercavo. Mentre mi guardavo intorno nell'imponente salone in cui decine di coppie fluttuavano sulla pista da ballo, mi resi conto ancora una volta dell'imponenza della nave: cercare qualcuno a bordo era un'impresa pressoché impossibile. C'erano tredici livelli, ognuno dei quali esteso come quattro edifici di Manhattan, più decine e decine di sale, salette, bar , ristoranti, palestre, comprese quelle esterne sui ponti, centinaia di posti in cui la gente poteva isolarsi, per non parlare ovviamente delle cabine. Trovare una persona specifica era come cercare il famoso ago nel pagliaio, o piuttosto, nel mio caso, nell'oceano Atlantico. Decisi che non avrei concluso nulla, con tutti quei pensieri che mi tiravano da una parte all'altra. Avevo bisogno di un po' di ossigeno. Mi recai sul Ponte Sette e, con una certa fatica per colpa del vento, aprii le porte che portavano alla promenade. Colpita dalle raffiche, presi in considerazione l'idea di rientrare, ma l'aria fresca mi avrebbe schiarito le idee ed era proprio ciò di cui avevo bisogno. La luna era nascosta da alcune nuvole, ma il cielo era in gran parte limpido e prometteva un'altra giornata di bel tempo. Mi avviai in direzione della prua, rendendomi conto che, da quando mi ero imbarcata, ero stata così presa dal caso, da non essermi goduta neppure una delle piacevoli e salutari camminate sul ponte.
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Vidi altre persone avanzare come me, chine in avanti per contrastare la forza del vento, cercando di non essere sospinte contro il parapetto, l'unico baluardo che ci separava dalle acque sottostanti. Trovammo un minimo di quiete nel passaggio coperto, prima di riprendere il cammino – questa volta con il vento alle spalle – per andare verso la poppa. Osservai gli altri intrepidi passeggeri aprire le pesanti porte per rientrare, uno dopo l'altro, fino a che non rimasi da sola sul ponte. Mentre incedevo, continuavo a ripetermi che non avevo motivo di preoccuparmi. Ma essere esposta alla forza degli elementi senza altre persone in vista mi creò una certa apprensione e finii per lanciarmi diverse occhiate alle spalle, per controllare che non mi seguisse nessuno. Cercai di razionalizzare i miei timori. In fin dei conti c'era stato un omicidio quella notte; un uomo che conoscevo, anche solo superficialmente, e con cui avevo ballato, era stato ucciso, pugnalato al cuore. Immaginare la scena mi fece correre un brivido lungo la schiena, che niente aveva a che fare con l'aria frizzante della notte. Ritornai nuovamente verso la prua ed ero a metà del percorso, quando scorsi con mia grande sorpresa una figura solitaria seduta in una rientranza della fiancata interna. Per quanto ci fosse una buona illuminazione sul ponte, la figura incappucciata era in ombra, con le braccia conserte. Mi ci volle qualche istante prima di riconoscerla: Marcia Kensington, la sposina in luna di miele. Dovevo disturbare quel suo momento di intimità? Riflettei solo qualche secondo prima di avvicinarmi. «Marcia?» la chiamai. «Va tutto bene?» La donna sussultò nel sentire una voce inaspettata. «Scusi, non volevo spaventarla», dissi, avvicinandomi alla panca su cui era seduta. «Non l'avevo vista», ribatté gettando indietro il cappuccio per vedermi meglio. «Sono Jessica Fletcher . Ci siamo conosciute la prima sera, a cena al Princess Grill.» «Sì, mi ricordo.» «Si sta godendo l'aria fresca?» chiesi, tanto per fare conversazione. La donna annuì e si mise a fissare in lontananza il mare. Il vento le
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fece volare una ciocca di capelli negli occhi e se li tolse con gesto impaziente. «Fa fresco stasera, eh?» proseguii, inspirando a fondo. «Già.» All'improvviso Marcia scoppiò a piangere, con il binocolo appeso al collo che sobbalzava, scosso dai singhiozzi. Le sedetti accanto, circondandole le spalle con un braccio. «Che succede?» domandai. «C'è qualcosa che posso fare?» «Una baruffa con suo marito?» proseguii, vedendo che non rispondeva. «Succede, sa, quando si è sposati.» «Noi non... lui non è...» Rimasi in attesa. «Non è mio marito», disse infine la giovane, piangendo sempre più forte. «Oh, pensavo che...» Marcia si voltò a guardarmi. «Sono tutte bugie!» La fissai in silenzio. «Ha voluto che fingessimo di essere sposati», si decise infine a confessare. Cercai di immaginare i motivi dietro a una richiesta simile. A meno che, certo, non volesse proteggere la reputazione della ragazza e non far storcere il naso alle altre persone, specialmente quelle più avanti con l'età, ammettendo di viaggiare insieme, senza il vincolo coniugale. «Non so niente del vostro rapporto», mormorai. «Ma posso capire che... Richard, si chiama così, giusto?... che Richard non abbia voluto... o meglio, abbia cercato di evitare che gli altri pensassero male di lei, visto che condividete la cabina e...» La ragazza alzò di nuovo il viso a guardarmi. Per un attimo il pianto si interruppe. Il visetto grazioso aveva un'espressione dura. «Non capisco di cosa parla», asserì. «Be', non sarebbe la prima volta che succede», osservai. «Comunque se preferisce non parlarne, lo capisco.» «Io ero contraria», esclamò la giovane. «È sbagliato.» «Che cosa è sbagliato?» «Fingere di essere sposati.» «Oh, be', quello», esclamai in tono scherzoso, tanto per sdrammatizzare. «Esservi spacciati per una coppia sposata non è la bugia peggiore al mondo.» Ma affermare di essere in luna di miele, ecco, quello sì mi sembrava