il giorno della fine, pt.2

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Durante il tragitto verso casa cerco di pensare razionalmente.
“starò bene”,
“starò bene, posso farcela, starò bene”,
“ci sono già passata, so cosa si prova, starò bene”,
“so come affrontarla, so come affrontarla” ripeto le frasi nella mia testa, come a convincermi di qualcosa che evidentemente non è. Ma che altra scelta ho?
Quando arrivo a casa mia madre mi aspetta sulla porta, lei lo sa già. Le basta uno sguardo per capirmi. Però io non le dico niente, non sono pronta ad ammetterlo. Né a me, né a lei, né a nessuno.
La guardo:‹‹vado a fare una doccia›› e cammino dritto davanti a me fino a quando non mi chiudo alle spalle la porta di camera mia, senza salutare o guardare nessuno.
“starò bene”,
“starò bene”,
“starò bene”.
Mi guardo allo specchio:‹‹starò bene›› dico, e nel conforto di camera mia crollo.
‹‹Posso farcela! Devo farcela!›› urlo tra le lacrime e i singhiozzi che mi scuotono il petto.
Qualcuno bussa alla porta.
Non ce la faccio ad aprire.
Non ce la faccio a fare nulla.
‹‹Mi è già successo, perché non passa?! Perché non passa?!››
Bussano ancora.
Qualcuno dice qualcosa.
Non riconosco la voce.
Non sento più niente.
Guardo il mio letto.
Le mie gambe escono sempre fuori dal letto, sono troppo grande per quel letto. Però chissà perché in due ci stavamo sempre una meraviglia.
‹‹Non ce la faccio ad affrontarlo di nuovo, non ce la faccio!›› e poi qualcuno mi abbraccia forte.
Non riconosco chi è.
Non so come hanno fatto ad aprire la porta.
Non mi importa.
Non mi importa più di niente.

Deve passare un po’ prima che mi accorga che quello che mi sta abbracciando è mio padre.
Mio padre che non mi ha mai abbracciata, mio padre che non è tipo da dimostrazioni d’affetto, mio padre così scorbutico.
‹‹Ti ha fatto solo un favore, capito? Non era abbastanza per te, non ti dava niente, non ti faceva una carezza. Meriti di meglio.››
Ed io lo so, lo so che non era facile tra noi, che non mi abbracciava mai davanti agli altri e che spesso scompariva per sbollire la rabbia nonostante sapesse che io ci stavo male e che arrivavano notti in cui io avevo bisogno di lui e lui si addormentava. Lo so che merito di meglio, ma chi se ne frega di cosa merito, io so più di tutto cosa voglio.
E questo comportamento da ‘fidanzato mediocre’ valeva ogni carezza e bacio che mi ha dato mentre fingevo di dormire o ero nel dormiveglia accanto a lui. Valeva ogni sguardo pieno di passione che mi rivolgeva quando eravamo soli, la sua mano sulla mia coscia mentre guidava, i baci lunghi una vita intera, i messaggi dolci all’una di notte.

Quando smetto di piangere decido che restare tra le quattro mura di camera mia probabilmente mi ucciderà, ed io non posso permettermi di ri-sprofondare nel tunnel, quindi indosso le prime cose che mi capitano tra le mani e vado a casa di Melissa. Quando mi vede le basta uno sguardo per capire cosa è successo, probabilmente devo sembrare uno zombie, ma a prescindere da ciò Melissa è molto brava a capire le persone e a farle parlare.
E allora parlo.
Parlo perché non voglio piangere, perché sono arrabbiata, ferita, delusa. Parlo perché non voglio affrontare il dolore, perché non ho avuto margine di scelta, perché mi sento vuota, perché non so come si fa ad andare avanti e parlo per scoprirlo.
Parlo perché non posso fare altro.
Non più.

E’ ormai l’una e mezza quando torno a casa mia, nessuno ha il coraggio di guardarmi in faccia o di dirmi nulla. Mi lasciano spogliare e andare a dormire.
“Posso farcela”.

Ed io non volevo più salvarmi da sola.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora