9 | Panic

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L'unico modo che avevo per mantenere la cognizione del tempo era guardando la finestra sopra di me. Avevo passato tutto il pomeriggio in quella stanza, rannicchiata all'angolo sul  soffice letto. Anche se era l'ultima cosa che avrei voluto fare, mi ero cambiata i vestiti con quelli che mi aveva portato. Perché aveva ragione – quelli di prima erano sporchi. Non solo si erano bagnati per via della neve, ma la parte bassa dei miei jeans era sporca di fango e la macchia arrivava fino al polpaccio.

Stare comunque nei mie vestiti era confortevole, soprattutto nel mio soffice maglione con quei comodi pantaloni da tuta, che coprivano il mio didietro dolente. Non faceva più così male, ora che le mie soffici mutandine erano a contatto con esso. Mi faceva paura, pensare che la sua mano aveva trapassato i miei jeans, mi faceva paura il suo semplice modo di ferirmi.

Infatti si tratteneva. Per quanto male mi avesse fatto, era ovvio ce non era sua intenzione ferirmi come aveva fatto. Se avesse voluto mi avrebbe riempita di schiaffi, mi avrebbe gettata a terra e mi avrebbe riempito di calci fino a farmi svenire. Non lo aveva fatto, ma aveva optato nel punirmi più mentalmente che fisicamente.

Perché?

E perché non rispondeva alle mie domande?

L'unica cosa rimasta intatta era il panino sullo scaffale. Non mi ero neanche avvicinata per vedere quello che mi aveva preparato il mio rapitore. Mangiare era l'ultima cosa che mi passava per la mente adesso. Non lo avevo fatto dalla cena della scorsa sera, e il mio stomaco era così pieno di terrore e di incertezze che il cibo sembrava aver perso il suo vero scopo.

Non importava adesso, mi sentivo troppo male, provavo la stessa preoccupazione e le stesse incertezze, moltiplicate per mille volte, aggiungendo poi la dose di paura. Ero fin troppo piena di ansia per mangiare.

Toccare quel cibo era fuori discussione, perché poteva averci messo qualcosa. E se avesse messo quella droga che mi aveva iniettato prima?

Tutto era possibile, e nessuno mi costringeva a correre un tale rischio.

Forse era a causa del trauma, ma iniziavo davvero a prendermela con comodo in questa stanza. Il letto confortevole e il calore che faceva trasparire la camera – insieme alla legna – era molto più di quanto mi aspettavo. Mi faceva pensare a tutte le cose che mi avrebbero spaventato.

Sebbene fosse così duro e grezzo, autoritario e dominante, allora perché mi aveva trattata in maniera normale prima? Mi aveva portato del cibo, un cambio di vestiti, (i miei vestiti, oltretutto), mi aveva lasciata qui invece di rinchiudermi una cella o in uno scantinato o comunque in un posto freddo e spaventoso. Mi stava trattando da ospite... se non fosse per le sue regole psicotiche e dell'umiliante punizione. Ma comunque da ospite.

E ancora non sapevo il suo nome. Poteva almeno dirmelo.

C'era ancora del mistero in lui, questo faceva sì che la mia ansia aumentasse al livello estremo.

Lo sentii tornare nel mio piccolo rifugio, udendo i suoi passi salire le scale di nuovo. La paura mi invase di nuovo, e lui entrò per ritrovarmi nella stessa posizione con cui mi aveva lasciato – rannicchiata al letto, pressata contro l'angolo. Notò che avevo seguito alcune istruzioni, come l'essermi cambiata i vestiti sporchi con quelli che mi aveva portato, ma si accigliò nel vedere il piatto abbandonato, prima di tornare a guardarmi. Quasi sfidandomi. Guardai altrove, le mie dita stinsero le coperte.

La sua rabbia spiccò in maniera esponenziale. E così la mia ansia.

Con la mano ancora premuta sul pomello della porta, pronunciò le parole, «Vedo che non sei interessata a cenare, quindi.»

The Northridge Ripper | Harry Styles (Italian Translation)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora