UNSAID

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Remember when
you hit the brakes too soon,
Twenty stiches in a hospital room.
But when the sun came up
I was looking at you.

Remember when
you couldn't take the heat,
I walked out, I said, I'm setting you free.

||MARC||

Le luci a neon del pronto soccorso sono basse e tremolanti.

Seduti in attesa di essere visitati, Reina butta già un pacco di patatine ed io mi nascondo sotto il cappuccio di una felpa rubata ad un ragazzo in cambio di un autografo sul gesso, con la promessa di non dire a nessuno che mi ha incontrato in ospedale.

«Io e te insieme dobbiamo per forza rischiare la vita, se no non siamo contenti» mormoro.

Lei si gira a guardarmi, con la bocca piena e del sangue sbavato sulla faccia dai tagli sulle mani. Non so perché, ma scoppio a ridere.

La mia moto è abbastanza ammaccata, ho erba e pietroline dove erba e pietroline non dovrebbero esserci, un buco sul fianco e il collo che urla di dolore non appena cerco di muoverlo. Lei non riesce a muovere la gamba destra, dalla quale si scorge una scorticatura abbastanza profonda oltre i jeans lacerati, le mani piene di sangue e il volto cadaverico.

Ed io rido.

Perché tanto stiamo bene, e non c'è altra persona al mondo con la quale vorrei essere qui in questo momento.

«Cazzo ridi? Piuttosto, portami a fumare» esclama lei, togliendosi le briciole dalle dita e lanciando la carta delle patatine nel cestino. Ovviamente non fa centro.

Scuoto la testa e mi alzo, poi le allungo una mano per aiutarla a tirarsi su. Come fosse una bambina, la sollevo dal bacino e la metto in piedi sulla sedia per facilitarle la salita sulla mia schiena. Mi fa male dovunque, ma non sarà questo a fermarmi.

«Sai, ora che so che hai questa modalità incorporata dovrei sfruttarti di più come schiavo e meno come amico» dice con il viso accanto al mio, agganciata come una scimmietta con le braccia intorno al mio collo e le gambe attorcigliate al bacino.

«Voi due» grida però qualcuno, prima che riesca a raggiungere la porta d'uscita «è il vostro turno. Ed esistono le sedie a rotelle»

«Le pare che mi serva una sedia a rotelle?» risponde Reina alla povera infermiera che ha avuto la sfortuna di trovarsi qui, oggi, con noi. Cercando di trattenere le risate, faccio dietro front e raggiungo la ragazza in camice. È troppo impegnata a compilare i nostri moduli per guardarci, infatti ci resta un attimo quando pronuncio il mio nome. Ci pensa un secondo, poi alza lo sguardo.

Spalanca occhi e bocca.

Lo sento, sta per gridare il mio nome. Reina risolve tempestivamente mettendole una mano sulla bocca. Si, la mano sporca di sangue e terriccio. Si, sempre da dietro la mia schiena.

«Nessuno, e dico nessuno, deve sapere che sono qui e cosa è successo. Chiaro? Se no vi faccio causa» intimo verso la sconvolta infermiera. Clara, o almeno così è scritto sul cartellino. Per inciso, è anche carina.

«Vi facciamo causa, io sono l'avvocato» aggiunge Reina, alla cui frase seguono i miei occhi al cielo.

Certo come no.

Clara annuisce, leggermente stordita, e Reina la libera. Poi ci fa strada in un corridoio dove mi obbliga a mettere Reina su una sedia a rotelle e ci divide.

Un'ora dopo siamo ammaccati e bendati ognuno nella propria stanza.

Con i boxer e la mia nuova felpa dei Chicago Bulls, il collare e fasciature bianche ovunque, me ne sto steso sul letto reclinabile a fare zapping in TV. In realtà è Reina che vogliono tenere sotto controllo, spaventati dalla possibilità di un trauma cranico, non me. Ma tanto vale, mi tengono qui fino a domani mattina.

YOUNG GOD // MARC MARQUEZDove le storie prendono vita. Scoprilo ora