22. Ali

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J u s t i n

Quando Adele aveva poco più di sei anni ero solito ad accompagnarla al parco distante alcuni isolati da casa, soprattutto in quei giorni in cui sentivo la necessità di trascorrere del tempo con lei e nessun altro. Solo io e mia figlia. Era una bambina adorabile, sempre pronta a strapparmi un sorriso nel vedermi giù di morale. La lasciavo giocare assieme ad altri bambini nella piscina di sabbia, oppure sullo scivolo, ma quello per cui andava pazza era senza ombra di dubbio l'altalena. Me ne stavo dietro al sua figura, spingendola lentamente per paura che potesse cadere e farsi male. Lei puntualmente mi urlava di andare più veloce, io non ne avevo il coraggio. Preferivo andasse lentamente, che le spinte aumentassero a mano a mano. Non volevo rischiare. Se mai fosse tornata a casa con un ginocchio sbucciato o con il volto graffiato non me lo sarei mai perdonato.

Quando mio fratello maggiore Jason mi convinceva a marinare la scuola, ci recavamo entrambi al parco. Ricordo che un giorno, sovrappensiero, spinse l'altalena verso la mia figura in piedi. Il dolore che provai sulla guancia fu atroce, per poco non colpì il mio occhio. Trascorsero delle settimane prima che io tornassi a rivolergli la parola, soprattutto prima che mia madre decidesse di scusarmi. Non volevo che Adele si facesse male per esperienza personale, per tanto preferivo prevenire piuttosto che curare. Avevo solamente otto anni, mio fratello invece undici. Lui comandava, lui decideva cosa dovessi dire e cosa potessi fare. A volte si divertiva a mettermi in imbarazzo davanti ai suoi amici ma a me piaceva trascorrere le giornate assieme ai più grandi. Rendeva anche me uno di loro, nonostante i tre anni di differenza.

Spesso e volentieri ero costretto a mentire ai miei genitori quando lui saltava scuola per andare in giro assieme a qualche ragazzina. Lui mi ripeteva di continuo che le ragazze gli morivano dietro e di questo si vantava costantemente. Era egocentrico, ma gli volevo bene nel mio piccolo anche se mi costava ammetterlo. Non ce lo siamo mai detti. A quei tempi, quando lui mi spingeva sull'altalena e io gli urlavo di andare più veloce, non avrei mai potuto immaginare che tutto sarebbe svanito nel nulla qualche anno dopo. Percepisco ancora gli scocchi dei suoi schiaffi sul mio volto, a volte meritati. Io di canto mio mi ribellavo lanciandogli calci e scappando via, verso mia madre. Mi nascondevo sempre dietro le gambe della donna e la scampavo la maggior parte delle volte. Lei mi proteggeva. Non solo schiaffi: boccacce, parole di troppo ma anche abbracci e sorrisi. Nonostante l'orgoglio, lui era sempre pronto a difendermi. Peccato che alla fine sia stato proprio lui a recarmi il dolore più sofferente.

"Justin. È la quarta volta nell'arco di due ore che chiama tua madre. Per favore, rispondile" disse Caren, irrompendo dentro il mio studio.

Ero seduto sulla mia comoda sedia, dietro la scrivania di legno e tenevo lo sguardo fisso fuori la finestra. Nevicava ormai da mesi. Per la prima volta dopo anni avevo deciso di tenere le lunghe tende aperte. Stringevo tra le mani un bicchiere di vetro con all'interno dell'ottimo amaro mentre nell'altra una sigaretta, l'ultima del pacchetto. Ne avevo fumato uno in mezza giornata. Il fumo aleggiava nello spazio circostante offuscando la mia vista e molto probabilmente anche quella di Caren. Non ero solito fumare dentro e quando lo facevo mi regolavo, in quel momento però sentivo la necessità di rimanere seduto lì, con lo sguardo fisso sui fiocchi di neve che cadevano canditi e ricoprivano le vie del quartiere.

Io sospirai: avevo espressamente chiesto a Caren di rifiutare qualsiasi chiamata, scusandosi per la mia assenza. Non avevo voglia di vedere né sentire nessuno, soprattutto quel giorno.

"Vuole solo augurati buon compleanno..." nella sua voce era percepibile un filo di amarezza.

Bevvi dal bicchiere, gustando a fondo il sapore dell'alcolico. Il giorno del mio trentaquattresimo compleanno.

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