Abigail

315 27 13
                                    

Piove. Ancora. Ininterrottamente.

Mentre l'auto di mia madre sfreccia tra le vie trafficate della città, senza mancare nemmeno una pozzanghera, io, seduta dietro di lei, disegno forme a caso sul finestrino appannato. E' da quando sono nata che mia madre mi costringe a sedermi dietro. Davanti è troppo pericoloso. Ma almeno adesso non ho il seggiolino. Almeno.

Siamo in ritardo come sempre, ma non è colpa del traffico. E' il fenomeno mamma che si è abbattuto su di me colpendomi rovinosamente e che mi farà arrivare in ritardo. Di nuovo. Ha un talento innato nell'imboccare le strade più accidentate, più affollate, nello scegliere i percorsi più lunghi sbagliando direzione. Non lo fa apposta. Le viene naturale.

"In nome di Kali, spostati uomo!" esclama mia madre. E' al culmine della sua rabbia o meglio di quello che riesce a fare quando è arrabbiata. Non ci sarebbe nemmeno gusto a litigare con lei, credo. Forse è per questo che papà è ancora così arrabbiato, perché durante il divorzio non ha nemmeno potuto godersi un vero litigio, una sfuriata come Dio comanda, una giugulare pulsante sul collo.

Niente.

Sasha Grendan, mia madre, è una donna piccola e snella con folti capelli rossi e vivaci occhi verdi; veste sempre abiti dal taglio semplice dai colori sgargianti che richiamano l'India.

India, la sua grande passione. Sasha pratica yoga due volte al giorno, segue una stretta dieta a base di riso e adora profumare le stanze di incenso. Oggi indossa una gonna arancione e un top giallo che la fasciano morbidamente facendola sembrare una principessa indiana nel suo sari.

"Siamo così in ritardo!" esclama ancora, svoltando a destra. Lo dice più che altro per compiacere me. Sii felice perché qualsiasi luogo è qui e qualsiasi momento è adesso, è questa la sua filosofia.

"Ma chissà perché...." ribatte con voce annoiata l'uomo accanto a me.

Sorrido senza distogliere lo sguardo dal finestrino e disegno un piccolo cuore che in breve scompare, si decompone in rivoli d'acqua.

Sasha svolta ancora a destra e poi parcheggia maldestramente tamponando un cestino della spazzatura. Sobbalziamo lievemente. Certamente sull'auto si sarà formata una nuova botta o un graffio o forse entrambi, ma chi tiene più il conto ormai?

"Hai tutto, tesoro?" mi chiede candidamente porgendomi lo zainetto.

Annuisco abbozzando un sorriso. Trascino la mia valigia dal sedile posteriore verso l'uscita facendola cadere pesantemente sul marciapiede, poi afferro lo zainetto che mia madre mi sta ancora porgendo.

"Bene. Ci vediamo tra due settimane. Ti porto a pranzo al Gandhi, okay?"

Annuisco di nuovo.

Mamma mi sorride ancora una volta, riavvia l'auto che con un singulto riparte e se ne va.

Spingo il vecchio cancello del condominio di mio padre che si apre con un cigolio inquietante.

"Mi sento come la protagonista di un film dell'orrore" mormoro.

"Lasciate ogni speranza voi ch'entrate..." risponde lui guardandomi ironico, mentre io cerco disperatamente di far salire alla mia pesantissima valigia gli scalini che conducono all'ascensore.

"Ispirati per uno dei tuoi libri" mi consiglia.

"I miei libri non parlano di guerra."

"Stiamo andando in guerra? Non lo sapevo!"

"Ora lo sai" taglio corto.

Prendo l'ascensore, miracolosamente funzionante, e arrivo al 16b.

"Puoi ancora fuggire".

"Giusto. Andiamo a dormire sotto un ponte, mangiamo resti di carne umana e familiarizziamo con l'esclusivo club dei barboni metropolitani!" dico con voce acuta fingendomi entusiasta all'idea e battendo perfino le mani.

"Sì" concorda lui.

"Neanche per idea!" concludo seria e irritata, perché è così che mi sento in realtà.

Proprio in quel momento la porta del 16b si apre.

"Papà" lo saluto.

Michael Archer. Mio padre. E' un uomo rigido ed austero, come si capisce facilmente dai tratti fisionomici: il viso è spigoloso e ben delineato, i capelli talmente chiari da sembrare bianchi, identici ai miei, e gli occhi piccoli, di ghiaccio.

"Abigail" mi risponde asciutto, poi sorride amaro "Che nome ridicolo; perfino lasciare scegliere il nome a tua madre è stato un errore!... E come sempre sei in ritardo".

"Anche per me è bello vederti..." gli dico con un sorriso tirato.

"Entra" mi dice sbrigativo.

"Che mostro di simpatia! Si vede che siete parenti!" esclama Edgar.

L'appartamento è un'estroflessione del suo carattere, freddo e maniacalmente ordinato; l' arredamento è essenziale; l'aria odora leggermente di muffa.

"Ma come diavolo è successo che si sono sposati?" sussurra il mio amico.

Non lo so, ma è la stessa domanda che anch'io mi faccio da anni. Stringo le labbra e mi avvio verso la mia stanza.

"Conosci le regole e gli orari dei pasti, Abigal, e sai che non tollero..."

"Ritardi, rumori, disordine o qualsiasi altra forma di disturbo. Non ti è permesso invitare amici e l'uso del computer è limitato dalle tre alle sei" lo interrompo finendo per lui la frase. "Lo so, papà, e adoro il tuo modo di darmi il benvenuto" gli dico scivolando finalmente in camera mia e chiudendomi la porta alle spalle.

Red as Blood, Red as WineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora