Chapter eighteen

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Accompagnai James in aeroporto dato che purtroppo doveva tornare in America, a Boston.

Lo sentivo che mi sarebbe mancato, ed io mi sentii persa.
Quando salì sull'aereo mi sentii abbandonata un'altra volta da una persona a cui tenevo.
"Cavolo, ti sei affezionata un'alta volta, ti eri ripromessa di non farlo" mi rimproverò una vocina nella mia testa.
Ed aveva ragione, mi ero ripromessa di non affezionarmi più a nessuno dopo la morte di mia madre, dopo quello che Alec era diventato.

Dannata me.

Ma dal tonde, come non potevo affezionarmi ad una persona come James?

Quando stavo con lui credo di aver addirittura dimenticato per qualche minuto tutta la storia di mio padre che non era mio padre e tutto il resto del caos sempre presente nella mia inutile vita.
Ma non potevo essere egoista nei suoi confronti, lui doveva tornare alla sua vita, e dal tonde, anch'io.
Mi accorsi di aver vissuto per giorni un'illusione, nient'altro che un'illusione, l'isola che non c'è in un mare di schifosissima realtà sbattuta in faccia che alla fine, vince comunque sulla fantasia.

In fondo, cosa mi aspettavo che succedesse?
Che James restasse qui, in Inghilterra, nella mia casa degli orrori e dei drammi a farmi compagnia ed a prepararmi i pancakes la mattina augurandomi una buona giornata?
Insomma dai, supera ogni tipo di fantasy.

Era il momento di tornare al mondo reale dove tutto faceva schifosamente schifo, compresa me e l'aria inquinata da insulsa gente che si credeva migliore rispetto agli altri, che respiravo.

Dopo aver passato una serata nella mia adorata solitudine di cui stranamente non avevo sentito la mancanza, tornai a scuola pronta ad iniziare un nuovo giorno che non sarebbe stato affatto differente da tutti gli altri.

Quella mattina mi sentivo interiormente instabile.
Non che non lo fossi anche negli altri giorni, ma quella mattina mi sentivo interiormente instabile ancora di più.
Una parte di me odiava tutti, l'altra però temeva tutti.
Una parte di me sapeva che la giornata sarebbe andata di merda, come le altre dal tonde, ma l'altra sperava che andasse diversamente.

Una parte di me voleva tremendamente sapere, sapere tutto. Sapere di mio padre, quello vero.
Sapere chi era, cosa gli piacesse fare, se preferisse il caffè amaro o con molto zucchero, se lo preferisse caldo o freddo.
Se fosse uno di quelle persone mattiniere, o se fosse come me che la mattina sono più irritabile del solito.
Volevo sapere se fosse una di quelle persone che schiaccia a metà il tubetto del dentifricio, oppure dall'inizio.
Ma l'altra invece, non ne voleva sapere niente, l'altra parte sapeva che niente sarebbe andato a buon fine.
L'altra voleva fare come se nulla fosse.
L'altra parte aveva tremendamente paura di non essere accettata neanche dal padre vero.
Insomma, non lo è stata da quello finto, sperare di esserlo da quello vero era assurdo.

La mia mente non smetteva di lavorare, di elaborare, di presupporre teorie su teorie.
Dettagli, dati, tutto quello che avevo e possedevo.
Ma una risposta esatta non c'era, c'erano solamente tante domande, tante teorie, e quesiti.

Ma comunque avrei dovuto cercare, riuscire almeno a scoprire chi fosse, sennò non me lo sarei mai perdonata e non sapere chi fosse mio padre mi avrebbe uccisa dentro.
Probabilmente sarei andata all'università dove aveva studiato mia madre a cercare informazioni, magari in qualche annuario sarei riuscita a trovare qualcosa.

Buttai la sigaretta ormai finita a terra ed entrai nell'edificio.

Non ero in ritardo, ma non me ne fregava niente.
Non entrai dalla porta dei bidelli, entrai dall'ingresso e percorsi il corridoio.
Mi ero stancata di loro, di me, della vita e della merda che mi lanciava addosso giorno dopo giorno.
Ero semplicemente stanca.

Fragili come petali di rugiadaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora