Capitolo 4

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Destiny always finds a way to make things the way he wants. Sometimes you think you have forgotten something, or someone, that's when destiny calls. When it's meant to be, it's destiny calling.

Sto guardando il mio riflesso allo specchio da venti minuti circa. Continuo a darmi pizzicotti sul viso, per capire se questo sia reale o sia soltanto frutto della mia mente. Quando la mia pelle è sufficientemente viola da sembrare che abbia appena fatto a pugni con qualcuno, la smetto, e mi preparo per scendere a fare colazione, poi salgo nuovamente in camera. Un filo di mascara e una sottile riga di eyeliner sugli occhi, un velo di rossetto nude sulle labbra, per non sembrare troppo appariscente e sono pronta per uscire.

Mi assicuro di aver preso tutto quello che mi serve per affrontare la giornata, soprattutto i documenti per andare in azienda, prendo il mio soprabito rosso ed esco. - La richiesta del visto!- esclamo mentre sono in ascensore. Ma perchè per una volta non mi ricordo la mia testa? Sono costretta a tornare indietro, e per fortuna che prima di uscire ho ricontrollato nuovamente, perchè mi stavo pure dimenticando l'abbonamento della metro. Evidentemente sono malata di Alzheimer precoce, perchè ogni volta mi perdo qualcosa.

Finalmente riesco a mettere il naso fuori dalla hall dell'albergo e con la mia fedele compagna di viaggio, la cartina, mi avvio verso la mia destinazione: il Museum of Modern Art. Qui so che ci saranno anche dipinti di Pablo Picasso e Claude Monet, i miei artisti preferiti, senza scordare ovviamente la scultura "forme uniche della continuità nello spazio" di Umberto Boccioni, che detta così potrebbe sembrare che mi sia appena inventata un nome, seppur originale, per un'opera. Ma non è così. Credo che ormai sia semplicemente divenuta nota come il rilievo presente sul retro della moneta da venti centesimi di euro.

Mi soffermerei ore ad osservare queste opere, per capire cosa realmente volesse comunicare l'artista. I critici ci danno versioni diverse sul significato del dipinto, o scultura, ma il vero messaggio è, e sempre sarà, nel cuore dell'artista. A me, però, piace provare ad immaginare cosa significhi un preciso colore dell'occhio o un contorno più o meno definito. Ecco una cosa che non sapevate di me e che, a giudicare dagli studi che ho fatto, forse non pensavate nemmeno possibile. È semplicemente la mia solita testolina che ragiona fuori da qualsiasi logica ancora una volta.

Mi sento un po' come Beatris in "Divergent": io non mi sento solo una scienziata, solo un'artista, o solo una classicista. Sono un mix di queste personalità: razionale e metodica come una scienziata, molto all'antica come i classici e assai romantica e creativa, proprio come gli artisti. Mi piace pensare che la mia vita sia come una tela bianca, vuota, che deve essere riempita. Posso usare colori buttati a caso, linee precise, forme senza un significato noto a tutti, ma è mia. La mia vita la scelgo io.

A destarmi da questo momento di filosofica riflessione è il cameriere del ristorante con il mio piatto in mano: una fetta di meravigliosa cheesecake ai frutti di bosco. Sono a New York, devo assaggiare le specialità locali, no? La cheesecake non sarà la specialità più particolare, ma richiede una preparazione diversa da quella che mangiamo in Italia, perciò dovevo assaggiarla, a tutti i costi. Devo ammettere che preferisco di gran lunga la versione italiana, per i miei gusti il formaggio è troppo pesante: un boccone e sono già sazia.

Questa sosta però rischia di farmi arrivare tardi: guardo l'orologio e in un nano secondo sono alla fermata della metro: ho l'appuntamento col grande capo in azienda e arrivare in ritardo non è un'opzione possibile.

Quante fermate mi separano dalla meta? Non le ho contate, non amo la matematica, ma di certo non sono poche. È la mia stazione, e finalmente metto il naso fuori, alla luce del sole. Sempre armata di cartina nella mano destra, percorro qualche via fino a che non mi si para davanti agli occhi un grattacielo gigante. È la mia destinazione, le scritte all'ingresso non mentono.

Con un po' di titubanza varco la soglia d'ingresso: sostanzialmente è tutta una vetrata gigante. È molto luminoso l'interno. C'è un banco con una guardia, responsabile dei controlli, oltre al quale ci sono tre ascensori che portano ai piani superiori, dove ci saranno i laboratori, suppongo.

- Do you need any help? - sento chiedere da una voce maschile alle mie spalle.

- Yes, I was looking for Mr. Parros. Do you know where to find him?-

- Sure. That's me. And I guess you are Miss Verli, aren't you? - Ed ecco che ho appena fatto la mia prima figuraccia: non riconoscere il capo.

"Bell'inizio eh?!"

"Almeno non potrà scordarsi di me!" Altra cosa che non tutti sanno, è che adoro parlare con la mia coscienza.

- Yes, I am.- rispondo cordialmente. Dopo tutto, lui è il mio nuovo capo, perciò voglio presentarmi al meglio, vista la barbina figura precedentemente fatta.

- We're pleased to start working with you. Now you should follow me, so that we can define some practical details. - Mi fa cenno con un braccio di seguirlo ed io eseguo l'ordine. Ha una barba nera, leggera, che lo fa sembrare più vecchio di quanto in realtà non sia. La sua presenza emana sicurezza, self confidence, come si dice da queste parti.

Saliamo in ascensore, piano 23, l'ultimo. Le porte dell'ascensore si aprono e davanti ai miei occhi si para un labirinto. Tutti che corrono da una parte all'altra, chi in camice, chi in giacca e cravatta. Mentre cammino a passo spedito per raggiungere il suo ufficio mi guardo intorno e mi stupisco di come tutti si muovano come se sapessero esattamente dove andare e cosa fare. Entriamo nella stanza e sono ancora un po' tesa, anche perchè pur parlando bene l'inglese, ho sempre paura di dire qualche obrobrio. Mr. Parros però mi mette subito tranquilla e finalmente l'ansia da prestazione svanisce. Osservo le pareti della stanza senza più tremare e noto i colori molto caldi che pervadono l'ambiente: giallo e arancione sfumati in modo da sembrare la luce del sole. È tutto molto luminoso, grazie soprattutto alla grande finestra di fronte a me. Il giovane direttore di fronte a me mi illustra come saranno più o meno le giornate e mi spiega che sarò affiancata per i primi tempi ad un collega con più esperienza, in modo da poter apprendere più in fretta come essere autonoma e mi porge il contratto da firmare: lo avevo già visionato a casa, perciò senza dubbi prendo la penna e firmo. Prima di darmi il benvenuto ufficiale mi accompagna all'ufficio del personale per il ritiro del tesserino, senza il quale non è permesso entrare. Entriamo nei laboratori, dove mi deve presentare al collega, con cui lavorerò fianco a fianco per i prossimi mesi. Mi sembra un sogno. Altro che principe azzurro, questo è ciò che volevo. Resterei ferma qui a guardare queste persone lavorare con provette colorate e macchinari vari per ore. Gli occhi si fermano e sembro in trans, quando sento il direttore pronunciare il mio nome al mio nuovo compagno di avventure.

- Miss Verli, this is Matthew Jonhson.-

Alzo gli occhi e non posso credere a chi ho di fronte.

- The girl of the plane, Sofia, right? -

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Ciao amici!

Eccomi con un nuovo capitolo. Cosa ne pensate? Che ruolo avrà Matthew in questa storia?

Volevo chiedervi: vi piace il fatto che ci siano parti scritte in inglese oppure no?

Scrivetemelo nei commenti!!

Ci vediamo presto,

Giulia

Tutta una questione di chimicaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora