7. Everest

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2017

Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac.

Assorta, guardo con attenzione i documenti davanti a me mentre torturo la povera penna nera.
Sono alla dodicesima dichiarazione dei redditi della giornata e i miei poveri occhi stanno per andare a fuoco, mentre il mio stomaco reclama attenzione.
Guardo velocemente l'orario e mi cade l'occhio sul calendario. Di nuovo.
Che gioia!

Tic.
Oggi è il giorno.

Tac.
Non devo pensarci.

Il cuore mi si congela un po' di più nel petto, mentre mi ripeto come un mantra che io sono un uragano. Al momento mi sento al più come una leggera brezza, di quelle che non sconvolgono nessuno, anzi.

Sospiro pesantemente e mi decido ad alzarmi dalla scrivania. Spengo la luce del mio ufficio, prendo la giacca dall'attaccapanni e faccio un cenno di saluto al mio capo mentre la infilo.
Una volta fuori faccio pochi passi fino alla fermata dell'autobus. Abbasso il viso nella sciarpa fino a coprire anche il naso e infilo le mani nelle tasche, ma il freddo è dentro di me, i brividi vengono su dalle gambe al petto. Cerco di svuotare la mente da ogni pensiero e mi concentro sul panorama.
Un cartellone pubblicitario che sponsorizza un nuovo negozio che apre alla stazione Termini.
Un ragazzino che corre in bici.
Le luci degli uffici che si spengono una ad una.
La luna alta nel cielo.
La lacrima che scende solitaria fino alle mie labbra, che da quando ti ho dentro poi tanto mie non sono più. Perché di me hai voluto e ti sei preso tutto.

E un quarto d'ora dopo sono qui che appoggio la fronte al finestrino del 90 mentre le luci della città mi scorrono accanto veloci.

Dentro di me, l'inverno. Una distesa di ghiacciai, dentro di me.

Le altre persone con cui condivido questo spazio tornano a casa, da qualcuno.
Il ragazzino che ascolta la musica mentre gioca a Puzzle Bubble torna dai genitori che lo aspettano per cena, la signora col vestito blu e le buste della Crai torna dai figli che ha lasciato con la sedicenne che abita al terzo piano, il cinquantenne in camicia azzurra e ventiquattr'ore messaggia sorridendo, contando i minuti che lo separano dalla moglie che non vede da ben otto ore, la signora coi capelli grigi seduta in fondo torna dai suoi gatti che graffiano le porte per ingannare l'attesa.
Io torno a casa dai miei pensieri. Li ho chiusi a doppia mandata dentro il mio monolocale di cinquantasette metri quadri stamattina prima di uscire e loro non si sono mai mossi di lì.

Ad aspettarmi mentre rientro, intravedo da lontano la luce accesa in bagno, unico conforto in questa casa buia.

Dentro di me, l'inverno. Una distesa di ghiacciai, dentro di me.

I numeri sono esseri semplici e tranquillizzanti nella loro maledetta prevedibilità, laddove la matematica non è un'opinione. Non ti tradiscono, non ti confondono, non mentono, i numeri sono fedeli. E io non conosco il Lexotan, ma conosco i numeri.

Quindi conto.

Conto i passi che mi separano dal condominio: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette.
Gli scalini fino alla porta: uno, due, tre.
Le scarpe scomode che sfilo per indossare le pantofole: uno, due.
I pulsanti del telecomando che pigio prima di trovare un programma vagamente interessante: uno, due, tre, quattro.
I minuti che ci mette la cena a scaldarsi nel microonde: uno, due, tre.
Gli amori che ho avuto nella vita: uno.
Le persone che mi hanno lasciato squarci dentro, crateri da cui si affacciano tutti i miei sogni: uno.
Le persone che vorrei festeggiare stasera e accanto a cui vorrei essere: uno.
I motivi che mi hanno dato per restare e per cui dovrei essere accanto a loro: zero.

Dentro di me, l'inverno. Una distesa di ghiacciai, dentro di me.

Mi accovaccio e stringo le ginocchia con le braccia, mentre in tv il muscoloso protagonista di una commedia qualunque fa volteggiare il suo amore in aria.

Accarezzo con un movimento involontario e familiare il tatuaggio che ho nell'incavo del gomito.

Di tutti, il posto più freddo è qui, proprio dentro al mio letto.


Auguri.

Tu sei (Le ceneri)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora