33. ... rosso 2/2

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2010

Mi guardo allo specchio, dopo la doccia, vestita solo dell'intimo in pizzo nero e delle piccole goccioline residue, mentre aspetto che il rosso sulle unghie delle mani si asciughi.
Doppia passata di patina lucida a coprire il nero che ho sul cuore.

Inclino il collo verso destra, e mi scruto con occhio clinico e sguardo asettico, come se stessi osservando un oggetto sconosciuto e ne stessi decidendo il valore, soppesando le sue caratteristiche: il taglio ampio degli occhi, il naso all'insù, le labbra serrate, il collo sinuoso, le clavicole, il seno, il ventre piatto, le cosce in cui lui si è perso un milione e mezzo di volte, che a contarle non ci si riesce più.

Da tenere o da buttare?

Mi dipingo addosso, con gli occhi: ampie strisciate di vernice rossa, tracce indelebili e scottanti, lì dove lui ha posato le sue mani.

Apro l'armadio e scelgo il vestito nero, quel tubino aderente con la gonna sopra il ginocchio che avevo comprato per indossarlo in qualche occasione speciale; lo infilo scivolandoci lentamente dentro, sentendo il morbido tessuto accarezzarmi la pelle e provocarmi dei piccoli brividi. Arriccio i capelli in boccoli sul fondo e disegno sugli occhi due sottili linee di eye-liner, come fossero le strisce sul viso di un soldato chiamato in guerra.
Dieci i centimetri di tacco e altrettanti i metri sotto cui ho sepolto speranze, sogni, progetti.
Fiducia.

Glaciale, metto il rosso anche sulle labbra: Ruby Woo, di Mac, scivola morbido da una parte all'altra del labbro inferiore prima e superiore poi.
Rosso peccato.
Rosso sei-stato-tu.

Spruzzo il profumo dietro le orecchie, sui polsi e nell'incavo dei gomiti, lì dove il sangue scorre più velocemente; prendo giacca e borsetta con tutto il necessario e finalmente sono fuori casa.

Noemi mi aspetta di sotto con la macchina già in moto, mi accoglie in silenzio e guida nervosamente, picchiettando le dita sul volante e imprecando ai rossi.

Mi sa che questo colore non piace nemmeno a lei.

Si infila sgraziatamente in un parcheggio a spina di pesce, frena, spegne il motore e rimane seduta, mentre io apro lo sportello e scendo dall'auto con estrema calma, sempre in religioso silenzio, dosando i passi che, rumorosi come il ticchettare di un ordigno, si susseguono uno dopo l'altro.

Entro nel locale a testa alta, da regina. Non ho nulla di cui vergognarmi, io.
Mi guardo intorno e infine lo vedo, Andrea, in fondo: una lei qualunque beve dal suo cocktail seduta sulle sue gambe, mentre lui le lascia baci umidicci sulla pelle.
E ride, lei, povera creatura ignara.

Non provo nulla.
Manco schifo.
Sono vuota.
Ho solo un programma da seguire e rispettare, uno di quelli con vari punti all'ordine del giorno.
E io sono molto brava con i numeri e gli elenchi.

Un po' meno con i progetti di vita a lungo termine, pare.

Mi siedo al bancone e ordino un Martini in ghiaccio, di quelli con l'oliva verde dentro. Di quelli che c'era una volta all'inizio di quest'anno una ragazzina che sognava un'altra vita, un altro bar, un altro uomo.
Afferro l'oliva con le mani smaltate e privo del succoso guscio esterno il nocciolo, che guardo lì tra le mie dita, nudo.

Nuda.

Nuda, sotto di lui, un milione e mezzo di volte, che a contarle non ci si riesce più.

Apro la borsetta e cerco il biglietto e la penna che ho prelevato dal cassetto della scrivania, prima, e ci scrivo poche righe. Chiamo il cameriere e gli sussurro, lasciva, qualcosa nell'orecchio; lui annuisce sorridente, strizza l'occhio - magari sogna di portarmi tra le lenzuola, a fine serata: tutto si riduce a questo, no? - e se ne va con il mio messaggio.
Mi appoggio al bancone e mi gusto la scena, sorseggiando il mio Martini.

Qualche minuto dopo, il cameriere si avvicina ad Andrea con il biglietto e un cocktail mano. Lo vedo stranirsi, mentre l'oca continua a ridere, felice; afferra il negroni rosso peccato e il cartoncino bianco e lo scandaglia con gli occhi.
Impallidisce.
Il rosso gli defluisce dal viso e gli rimane addosso solo il bianco.
Il bianco è quello che si merita.

E poi, sul bianco i peccati risaltano ancora di più.

Si guarda intorno, frenetico, talmente nel panico da non notare me che semplicemente aspetto, perfettamente visibile a pochi metri di distanza. Il cameriere gli sussurra nell'orecchio quello che già so, "Un omaggio da parte della signorina al bancone".

Solleva lo sguardo, lentamente.

Mi trova.

Mi guarda.

Spalanca la bocca.

Lei continua a ridere.

Mi alzo, elegantemente, e mi dirigo con esasperata lentezza verso l'uscita, con gli occhi di tutti puntati sulle mie gambe seminude messe ancora più in evidenza dai tacchi alti.

Addio, Andrea.
Fanculo, Andrea.

Quasi sulla porta mi volto verso di lui, che trovo, naturalmente, con lo sguardo ancora fisso su di me. Sembra quasi non riconoscermi.
Te la sbatto in faccia, questa scena.
Ti ci devi strozzare ogni volta che respiri.
Te la devi sognare di notte mentre sei nel letto di quella cosa inutile.

Sorrido, melliflua, inclinando un poco la testa e sbattendo le ciglia: una pallida rappresentazione di Bambi, me ne rendo conto, ma tutto fa buon brodo con te, Andrea, che sei solo la pessima imitazione di un uomo.

Poi, lentamente, gli mostro il dito medio.

Nell'aria risuonano, reali, le parole scritte poco fa.

"I miei saluti, stronzo."

Tu sei (Le ceneri)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora