Primo giorno

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Tamburello con le dita sul volante da più dieci minuti, mentre lancio occhiate nervose al civico ventuno.

Ho promesso - a me stessa, ché a lui non prometterei nemmeno l'aria che respiro - che avrei lasciato a casa tutto, che avrei cancellato dubbi, pregiudizi, rancori e qualunque altra cosa Andrea nel corso del tempo mi aveva ripetutamente dipinto addosso, per ognuna delle novantasei ore che gli avevo concesso. Sotto le unghie mi è ancora rimasto qualcosa, residui di sporco troppo tenaci da annientare in una volta sola, ma non avrei potuto fare meglio di così: si dovrà accontentare di me che almeno ci provo, a far finta che non sia accaduto niente.

Niente, intanto, sventola le sue mani giganti di fronte ai miei occhi; si è pure attaccato al collo un'insegna al neon tipo quella dei casinò di Las Vegas, con le lucine colorate lampeggianti che albero di Natale in Darsena scansate.

Ma a parte questo tutto bene.

L'sms che mi ha portata qui - "All'1 a via Panisperna 21" - , è stato uno tipico dei suoi: piange tutt'ora di solitudine come la particella di sodio dell'acqua Lete, visto che poi, com'era prevedibile, Andrea non ha risposto a nemmeno uno dei miei in cui gli chiedevo spiegazioni. Questo è sicuramente uno dei punti da chiarire al più presto, al fine di far funzionare la cosa: credo gli sfugga il fatto che il lusso di fare il misterioso l'ha perso tra le gambe di Bianca.

Non riesco a fare a meno di innervosirmi ogni minuto che passa di più, è un loop in cui da un lato ci sono io che tento di scacciare tutte le sensazioni fastidiose e dolorose e dall'altro i ricordi e i brutti pensieri che invece mi impastano le mani e me le avvolgono con la carta moschicida, impedendomi di riuscirci e dimenticare. Come se non bastasse, qualcuno mi deve aver fatto alla bocca dello stomaco il nodo del marinaio: mi pare che si tenda a ogni respiro, facendomi refluire in gola serpi fatte di ansia che poi, tirate giù dalla gravità, mi avviluppano il petto e non mi fanno respirare per bene.

Stiamo iniziando male. Molto male.

Se tutta la negatività e la cattiveria potessero concentrarsi in uno sguardo, a quest'ora la trattoria che ho trovato al maledetto civico ventuno avrebbe già preso fuoco e noi saremmo sul set di uno di quei film post-apocalittici in cui il coglione ritardato e ritardatario brucia insieme al resto. Il fatto che poi sarebbe capace di arrivare un'ora dopo persino al suo funerale è un'altra storia - anzi, un altro film.

Calma, Beatrice, stai calma.

Aspetto altri dieci minuti e, appena mi rendo conto che l'abitacolo sta iniziando a farsi troppo claustrofobico per la mia ingombrante agitazione, scendo dalla macchina. Sto per accendermi una sigaretta, quando mi viene in mente che è vero che buona educazione vorrebbe che Andrea mi aspettasse fuori dal locale, prima di entrare, ma in fondo lui altro non è che un concentrato di quanto più distante esista al mondo dalle comuni convenzioni sociali: potrebbe anche darsi che sia entrato non appena arrivato e si sia già seduto.
Poi magari mi rimprovera pure per il ritardo, quello ci manca.

Sospirando pesantemente, rimetto al suo posto la Winston blu ed entro nel locale, lasciandomi alle spalle l'allegro suono della campanella collegata alla porta e facendomi investire dal tintinnio delle posate, dal chiacchiericcio sommesso, dal profumo di sugo e dalla puzza di fritto, intanto che, poco a poco, il nodo del marinaio si stringe a tal punto che mi viene voglia di vomitare.
Sono sempre stata una persona che ha somatizzato l'ansia: come ogni volta che qualcosa mi ha turbato, sconvolto o ha più semplicemente creato in me un forte senso di aspettativa, anche ora mi sembra di avere l'addome chiuso in una tagliola. Sono certa che non riuscirò a mandare giù nemmeno un singolo boccone; persino gli odori che mi solleticano il naso mi infastidiscono.

Ma che ci faccio qui?
E soprattutto, perché mi agito tanto? Alla fine è solo Andrea. Cioè: sono andata a pranzo con lui una cosa come un miliardo e mezzo di volte, perché adesso devo reagire così?

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