A ripensarci adesso mi sembra quasi impossibile.
Essere arrivata fin qui, intendo, a un numero sconsiderato di views, stelline e commenti per quelle che erano le mie previsioni quando una domenica mattina di un giorno di novembre, nel pieno di un turno lavorativo super noioso, scrivevo di getto un insieme di parole in una raccolta che avevo chiamato "Briciole di storie".
L'idea era questa: capitoli sconnessi e sconclusi, frammenti di una o più storie in cui ciascuno potesse identificarsi e sentirsi a casa. Parole confortevoli come la propria maglia preferita, legata a ricordi più o meno piacevoli ma non per questo meno unici.Poi mi sono resa conto che volendo poteva esserci un filo conduttore. Che quei frammenti di storie e persone potevano costruire Beatrice e Andrea sullo sfondo di una Roma bella da starci male, da chiedersi se a voler afferrare il segreto che custodisce incastrato tra pini e sampietrini non si esagera un po' - si pecca di ubris, direbbe qualcuno di nostra conoscenza fissato col greco.
I primi capitoli, corti, secchi, brutali, sono spuntati via con una facilità immensa. Settecento parole circa di concentrati di emozioni che cercavo di rendere il più possibile fruibili attraverso le mie amate metafore: quelle che rispecchiano la quotidianità, il giornaliero, ciò che unisce tutti noi e ci fa dire "sì, è così! Conosco la sensazione!". Perché non c'è niente di più bello del verosimile e tra le storie migliori ci sono quelle che possono succedere a noi e ai nostri amici o che sono già successe. Con cui stiamo venendo ancora a patti, che abbiamo dimenticato, sepolto, con cui ancora conviviamo.
Leggevo i primi commenti, incredula, nelle tratte obbligate di treno che dovevo fare per andare a lavoro. Arrivavo col sorriso, con la voglia di scrivere ancora, buttare giù. Sono seguite le prime amicizie telematiche, i primi confronti, i primi scambi di letture, le prime critiche. Ci sono stata male, tanto, mi sono sentita incompresa a volte; in alcuni casi ho riflettuto e ho capito che era tutto vero, che avevano ragione loro, che le parole sono come figlie e le si difendono con le unghie e con i denti ma è giusto anche che qualcuno ci indirizzi sulla strada giusta. In altri casi ho capito che avevo ragione io (non nego dopo confronto esterno, ché ognuno è bravo a fare il giudice di se stesso) che dietro alle parole ci può essere superficialità, mancanza di rispetto, ignoranza - più o meno nel senso buono del termine - : anche in quel caso sono andata oltre, non curandomi di ciò che non ritenevo importante.
Ho scritto alcune parti che sapevo sarebbero dovute accadere con la frenesia nelle dita, ho modificato alcuni avvenimenti in corso d'opera e al contrario ho buttato giù righe e righe di cose assolutamente non previste all'inizio. Sono maturata e mutata costantemente, sfumatura in continua evoluzione (semicit.)
Ho seguito il mio cuore.
Ho bagnato i tasti su cui scrivevo e ci ho soffocato le risate quando ci mettevo la mia ironia.
Ho dato - metaforicamente - la testa al muro quando mancava l'ispirazione, il tempo, la voglia. Quando mi sono resa conto che i capitoli mi venivano giù molto più difficilmente rispetto a prima. Quando ero troppo stanca per muovere anche un solo muscolo, figurarsi scrivere; quando mi sembrava di non star facendo un buon lavoro; quando rileggevo le mie vecchie parole e a volte credevo di aver perso quella poesia che mi sembrava contraddistinguesse i miei primi capitoli e a volte al contrario volevo solo cancellare quelle parole inesperte da primo esperimento.
Ho soffacato l'impazienz- ah no, quella mai. L'impazienza ha regnato sempre sovrana, appena avevo il capitolo pronto mi venivano le fregole e dovevo pubblicare. Ormai mi conoscete.
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Tu sei (Le ceneri)
Romance[Completa] [Finalista Italian Writers Award 2017] «Mi amerai ancora tra un'infinità di anni, quando non sarò più giovane e forte, Beatrice? Quando non avrò altro che la mia anima sofferente, dolorante, ferita?» Non rispondo. Non prometto mai quello...