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Mia madre mi tendeva la mano, indossava quei jeans che adorava, quelli che avevo indossato sperando di sentirla vicina, ma avevo scoperto essere troppo grandi per me,
« Dai Megan è ora, farai tardi, andiamo » sussurrava dolcemente, allontanandosi senza motivo di qualche passo,
« Dove mamma? Dove devo andare? Aspettami.
Dammi la mano! » domandai frastornata, pensando istintivamente alla scuola, sbattendo ripetutamente le palpebre, ed iniziando ad avanzare verso di lei.
« Megan, tesoro, è ora.
È arrivato il momento di iniziare.
Sarai forte. Me lo devi, ricordi? » ripeté nuovamente la sua voce vellutata, lasciandomi sprofondare nell'incertezza della confusione,
« Ma perché stai correndo?
Aspettami, andiamo insieme... » le sussurrai ansimando, cercando inutilmente di raggiungerla.
« Non c'è tempo piccola mia, non c'è tempo... si sta facendo tardi... » soffiò, flebile come il fruscio del vento,
« Eccomi mamma sono qui! » dissi, affrettandomi, accelerando, gettandomi in una corsa sfrenata.

« Signorina Megan... Megan, dai... » ma quella non era la voce di mia madre... era più bassa, quel tono dolce c'era ancora, ma era solo una lieve sfumatura; e allora aprii gli occhi, ritrovandomi nella triste realtà della mia stanza.
La cameriera era davanti a me, mi chiamava, informandomi che a breve sarebbe arrivato l'autista.
Sbattei gli occhi ancora un paio di volte, guardandomi intorno, sondando lo spazio, mentre la voce di mia madre svaniva sempre più, divenendo solo un ricordo offuscato.

Quando raggiunsi l'ingresso, percorrendo il corridoio come fosse la passerella di una sfilata, osservai il volto di Agnese trasformarsi.
Passò dal grigio dello stupore al rosso della rabbia, provò a nasconderlo, ma senza successo.
Alzai il mento, guardandola mentre indossavo con tranquillità le sue scarpe preferite,
« Qualcosa non va Agnese? » domandai sorridendole compiaciuta,
« Semplicemente ci mancherai tesorino, guarda come sei bella vestita così, sembri una donna... » disse, fingendo di asciugarsi delle lacrime immaginarie, mio padre la consolò abbracciandola e stringendole forte le spalle.
Non ci furono abbracci tra noi, mi strinse semplicemente la mano, augurandomi buon viaggio.

Salii sul taxi emanando un sospiro di sollievo, espirando frustrazione, avevo solo un rimpianto, non aver salutato Amber...
Per l'intero viaggio osservai il paesaggio scorrermi accanto, veloce come l'acqua di un fiume, completamente ignara di ciò che mi aspettava, probabilmente, era successo tutto troppo velocemente.
Continuavo a pensare che mi sarei svegliata da quel sogno, che tutto ciò era un incubo surreale.

Arrivati a destinazione l'autista mi aiutò con le tre valigie fino all'entrata, dove un grande portone in legno suggellava l'edificio, una massiccia struttura di due piani.
Mi fermai all'ingresso, e attendendo la direttrice osservai l'atmosfera, una scala in marmo bianco portava ai piani superiori, l'ambiente era molto luminoso grazie alle grandi finestre, adornate con lunghe tende bianche, che dolcemente sfioravano il pavimento.
Il ticchettio dei tacchi presagì l'arrivo della direttrice, in un completo elegante blu.
Era una donna sulla quarantina, i capelli castani le arrivavano alle spalle in onde morbide, gli occhi gentili e una corporatura minuta mostravano una donna semplice e indipendente.

Era accompagnata da un ragazzo e una ragazza, arrivarono dal corridoio principale, dove erano posti alcuni divani in pelle beige.
La ragazza aveva i capelli di un blu acceso, raccolti in una coda di cavallo, in netto contrasto con gli occhi neri come la pece, era più alta di me e abbastanza robusta; il ragazzo che le accompagnava, attirò tutta la mia attenzione sin da subito.
Era alto, con un corpo muscoloso, la postura seria e composta stonava con i capelli castani spettinati, gli occhi risaltavano grazie ai lineamenti netti e decisi del viso, di un verde chiaro, tendente al grigio, racchiusi da ciglia lunghe e scure.
Rimase indietro con fare misterioso, appoggiandosi ad una colonna ed incrociando le braccia al petto, sentii il suo sguardo percorrermi, appoggiarsi sul mio corpo, cercando, forse, di studiarmi.

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