Capitolo 48 - Giallo e nero

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Prima di chiederci qualsiasi cosa Johanna ci dice di accomodarci e ci lascia soli, uscendo dalla stanza.

«Dite che ci faranno restare?» chiede Leah sottovoce.
Anche se nessun'altro può sentirci.
«Credo di sì, ma lo sapremo solo una volta che avranno fatto un'assemblea» rispondo.

Mi appoggio allo schienale della poltrona su cui sono seduta e chiudo gli occhi. Quando sono andata a dormire, una decina di ore fa, non avrei mai immaginato quello che sarebbe successo stanotte.

«Aimeen?» Zeliah mi scuote allarmata.
Apro gli occhi «Tranquilla, Zeli, sto bene. Sono solo stanca».
«Anche io, vorrei solo un letto. Ma non sono sicura che riuscirei a dormire».
Annuisco. Ha ragione. Probabilmente non dormirò fino a quando non saprò che Eric sta bene e che la nostra fazione è al sicuro.

«Ecco qua». Johanna rientra nella stanza, seguita da un uomo.
Lo riconosco. È uno dei guaritori che abbiamo, anche se dovrei dire "hanno", qui nelle terre dei Pacifici.
Ci guardiamo. E sono sicura che anche lui abbia riconosciuto me.

Avanza fino alla mia poltrona e si accuccia davanti a me.
«Mi hanno sparato» dico spostando il tessuto della giacca e alzando leggermente la maglietta.
L'uomo osserva la ferita ed annuisce, poi si rialza «Vieni con me».

Mi alzo, soffocando un gemito di dolore. E mi volto verso Johanna «Devo spiegarti tutto, ma intanto per stanotte possiamo rimanere?».
I suoi occhi nei miei mi trasmettono una sensazione di calma «È quasi l'alba, ma immagino non abbiate avuto modo di dormire. Tu vai con Josè, i tuoi amici li sistemo io. Quando vi sarete ripresi mi racconterete tutto».
Annuisco e mi avvicino a lei «Grazie».
Tentenno prima di avvicinarmi. Ma lei capisce le mie intenzioni e si fa avanti abbracciandomi.

«E ora vai, penso io ai tuoi amici» sussurra.
Annuisco. Guardo gli altri, dopodiché seguo Josè fuori dalla stanza e dall'intero edificio.
Cammino lentamente e lui mi affianca «Conosci già la nostra infermeria Aimeen. Ho perso il conto delle volte in cui ti hanno portata qui, tra caviglie slogate e cadute varie».

Entriamo in un altro edificio e percorriamo un corto corridoio che ci conduce in una saletta contenente quattro letti e tutto l'occorrente per medicare e prendersi cura dei pazienti.
Al momento i quattro letti sono vuoti.

Non succedono spesso incidenti qui dai Pacifici. Non come dagli Intrepidi.
Qui sono tutti molto coscienziosi e prima di fare una cosa ci pensano bene, sia essa piantare le coltivazioni o anche solo sedersi a mangiare.

«Siediti qui».
Josè mi indica il letto più vicino alla porta e io faccio come mi dice.
Mentre è girato sfilo la pistola dalla cinta, mi chino e tiro su il bordo dei pantaloni, infilando l'arnese di metallo tra la mia pelle e il calzini. Ritiro giù il tessuto nero, mi tolgo la giacca e mi sfilo la maglietta. Poi mi distendo.
«Questa è la prima pallottola che prendo» sussurro, cominciando a sentirmi nervosa.
«Speriamo sia anche l'ultima» commenta lui, mentre estrae un po' di cose da un armadietto appeso al muro.

Torna verso di me e osserva meglio la ferita. Prende una cosa bianca, ci rovescia sopra del liquido e me la passa sulla pelle intorno alla ferita.
Soffoco un gemito, brucia.

«Ti ha presa in diagonale, sei stata fortunata. La pallottola si è fermata in superficie, non sarà difficile rimuoverla».
Guardo il viso del Pacifico che mi sta a fianco e mi torna in mente quella volta che saltando giù dall'albero mi ero storta la caviglia.

Inizialmente non mi aveva fatto male e non avevo avuto problemi a tornare a casa. Ma dopo qualche ora il piede mi si era praticamente bloccato e non riuscivo nemmeno a camminare. Papà mi aveva portata in infermeria e lì Josè mi aveva guardato la caviglia, ci aveva messo della crema e l'aveva fasciata. Due giorni più tardi era tornata come nuova.

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