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L'acronimo della parola inglese 'hope', speranza, è 'hold on, pain ends', tieni duro, il dolore finisce.

Cerchiamo in maniera quasi disperata di tenere duro, di resistere, convinti che il solo guardare negli occhi il dolore sia un atto di viltà.

Ci rifiutiamo di parlare apertamente di ciò che ci affligge, con vergogna tentiamo di mascherare le lacrime formatesi sui nostri occhi, con arguzia evitiamo di incontrare il nostro dolore.

Pur di non pensare al motivo di tanta angoscia, preferiamo concentrarci su qualsiasi altra cosa.

Camminiamo per le strade di questo mondo con le mani nelle tasche della giacca, quasi a sfondarla, la testa piena di pensieri di cui non ci importa, il cuore appesantito da una preoccupazione che non vogliamo affrontare, la musica nelle orecchie a coprire il lamento del cuore, gli occhi a guardare paesaggi che non esistono.

Il dolore lo ignoriamo, come se ciò bastasse per non sentirlo.

Non ci sfoghiamo, perché farlo equivarrebbe ad ammettere di star soffrendo, smonterebbe la nostra maschera di invincibilità.

Fingiamo di essere degli eroi, capaci di sopportare tutto quanto il male del mondo, in grado di non piangere mai, di andare sempre avanti: stolti, teniamo duro, convinti del fatto che, così facendo, il dolore prima o poi se ne andrà, finirà.

Siamo disposti a fingere che non sia accaduto nulla, che nostra sorella non sia morta, che nostra madre non si sia ammalata gravemente, che tutta quanta la nostra famiglia non pensi che siamo dei buoni a nulla, che non abbiamo inesorabilmente deluso i nostri genitori, che nostro padre non abbia deciso di andare via, che la nostra famiglia non sia un peso sulle nostre spalle, che la nostra incapacità di relazionarci alla vita non ci abbia impedito di vivere: fingiamo di essere persone normali, non riconoscendo che in realtà il dolore sia normale.

Ci armiamo di un sorriso che fa male e commentiamo con il nostro vicino quanto sia bella questa giornata, mentre fuori infuria la tempesta.

Ci osserva, il dolore, e probabilmente pensa quanto sembriamo patetici nel nostro tentativo di vincere una battaglia che non stiamo neanche combattendo.

Lui invece,imperterrito, rimane lì, davanti la porta di casa nostra, consapevole del fatto che stiamo solo facendo finta di non essere in casa.

Aspetta un nostro passo falso, aspetta che allentiamo un po' le cinghia della maschera ancorata al nostro viso per insinuarsi dentro di noi.

Prima o poi dovremo affrontarlo, allora perché aspettare tutto questo tempo, perché fingere per così tanto di essere eroi che in realtà non saremo mai? Perché non affrontarlo e basta?

Le pareti di questa stanza sono veramente troppo bianche, così bianche da farmi innervosire al punto tale che non riesco nemmeno a guardarle lucidamente.

Serro le mani in due pugni e sento a malapena il dolore causato dalle unghie conficcate nella carne del palmo della mia mano.

Chiudo gli occhi in maniera violenta e scuoto la testa mentre sento il mio volto inumidirsi sempre di più.

Le pareti di questa stanza mi sembrano quasi iniettate di sangue.

Appoggio la testa alle ginocchia e cerco di calmarmi, di pensare a qualsiasi altra corsa.

Urlo, urlo che non ci sono, che non sono in casa, che non ci sono e che non ci voglio essere. Urlo e respiro a fatica.

Al dolore non interessa, lui lo sa che il ventidue agosto, ovunque io sia, troverà sempre il modo per raggiungermi.

Non importa con quanto impegno io abbia cercato di evitarlo, il ventidue di agosto sono costretta a guardarlo, sentirlo, affrontarlo.

Piango, mi dimeno, urlo, mi muovo in maniera spasmodica.

Drowned in the lake // Luke HemmingsWhere stories live. Discover now