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La cosa più difficile, dopo aver fatto un errore, è riconoscere quando occorre smettere di struggersi per l'errore compiuto.

Perché tutti sbagliamo, tutti facciamo errori su errori, tutti ce ne pentiamo, allora non dovremmo disperare.

Non dovremmo disperare per il solo fatto di essere esseri finitamente umani.

È corretto, a tratti necessario, essere autocritici, dire a noi stessi di aver fatto un errore, di nuovo, rimproverarci, esortarci a stare più attenti, dire a noi stessi che così non si può continuare, rimproverarci, ancora.

É corretto, a tratti necessario, essere autocritici, dire a noi di essere dei falliti, dei fallimenti, personificazioni dei nostri errori, ma, se e solo se, ciò è funzionale a spingerci a fare di più, a cambiare la marcia, a far ripartire la macchina, ad andare avanti.

Ma, ripetendoci fino all'esaurimento di aver fatto un imperdonabile errore, forse che l'errore possa essere, inspiegabilmente e improvvisamente, cancellato a forza, come nei vecchi quadernoni di bambini che per la prima volta si accingono a far di conto?

Non esiste una gomma capace di cancellare in questo modo.

Non dobbiamo ripeterci di aver sbagliato all'infinito, fino a non riuscire a dormire perché in maniera morbosa pensiamo al nostro errore, fino a non riuscire a mangiare, a camminare, a pensare, a respirare.

Questo no, non è umano, non è normale.

Dobbiamo riconoscere, dopo aver sbagliato, dopo aver fatto notare a noi stessi che la prova cui la vita ci ha sottoposto sarebbe potuta essere superata in maniera nettamente migliore, dopo esserci esortati a fare di meglio, dobbiamo riconoscere per una buona volta che, dobbiamo riconoscere che è giunto il momento di dire basta, non pensare più al nostro errore, che è errore, non morte.

Ma, esattamente, quando arriva questo benedetto momento?

Perché io ieri sera non sono riuscita a mangiare e stanotte non ho dormito, ho bruciato morbosamente la carta, come solo un disperato sa fare.

Ashton, in un modo o nell'altro, deve aver riconosciuto l'arrivo di questo momento, altrimenti non si spiega come lui sia riuscito a parlare civilmente con Michael e a comporre con lui una canzone.

A quanto pare, è stato ispirato dalla storia di una ragazza, Lauren, quella degli hot-dog, motivo per cui, il solo pensiero di averla invitata ad un appuntamento che prevede la sua esibizione, lo ha reso schiavo dell'attacco di panico più lungo della sua vita.

E, il fatto che a calmarlo sia stata una padellata in faccia (idea di Michael, ancora anni luce lontano dalle sue medicine) che, per inciso, gli ha causato un livido orribile sul naso e gli ha fatto perdere i sensi per due minuti e quarantatré secondi, è solo un dettaglio.

Così, mentre guardo con insistenza il mio riflesso sullo specchio adesivo e mi chiedo se riuscirò mai a combinarne una giusta, lego i capelli in una crocchia nel tentativo che essa non risulti essere troppo disordinata.

Probabilmente non dovrei indossare un pantaloncino jeans e una vecchia tshirt di sabato sera per andare in un pub, probabilmente dovrei accorciare le punte dei miei capelli, dovrei tornare dall'estetista, dovrei fare una bella pulizia del viso per eliminarne le impurità, dovrei indossare un vestito, dovrei truccarmi, dovrei fare tante di quelle cose, tante di quelle cose: invece chiudo l'anta dell'armadio, prendo dal letto la piccola tracolla che metto su una spalla, vado alla porta, controllo che tutto sia in ordine, spengo la luce, esco, chiudo la porta.

Forse è questo il momento.

No, la sento ancora la mia coscienza sussurrare flebilmente 'ho sbagliato'.

Drowned in the lake // Luke HemmingsWhere stories live. Discover now