Aprile 1676 pt. 4

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Marianna, la balia più anziana, sedeva su una panchina con la faccia intontita e un occhio pesto. Al sopraggiungere trafelato della marchesa si sentì mancare il fiato, poiché si immedesimò nel suo stato di ansia. Da come la vide volgersi verso di lei, però, Marianna capì che era già stata avvisata da altri; il peggio era passato, benché nel pallore del suo viso si leggesse chiaramente lo strapazzo che il suo cuore aveva dovuto sopportare.

«State bene, vero? State bene?» biascicò senza fermarsi, dirigendosi fuori, nel cortile del pollaio. La chiamavano gli strilli dei gemelli, ancora profondamente spaventati dal grido di Caterina, la balia più giovane. Marianna si passò una mano sull'occhio, percependo già il gonfiore della guancia e il calore dell'ematoma; il taglio sullo zigomo sanguinava ancora, mentre il naso aveva smesso da qualche momento. Chissà cos'aveva pensato quella povera madre all'udire l'urlo rimbombare dalla dispensa fino al piano nobile: con i nervi così sensibili, di certo aveva pensato a un brutto incidente e si era preoccupata oltremisura per i suoi bambini. Contrasse il viso, Marianna, non per il dolore fisico, ma per la compassione che provava per quella giovane donna cui la vita, certo, non aveva risparmiato le sue prove.

E Galatea era fuori, inginocchiata sull'erba umida con Ippolito stretto al seno, quasi volesse appropriarsi del suo spavento e liberarlo. Costanza, cinta dal suo braccio destro, si premeva contro il suo fianco immergendole il viso nell'incavo del collo. La marchesa percepiva chiaramente i brividi che scuotevano ancora le sue due creature, ma da parte sua era molto più tranquilla da quando aveva saputo cos'era accaduto. Dopo aver passato un bel momento ginocchioni, si accucciò seduta mettendosi in grembo i gemelli, accarezzando i capelli ora dell'uno ora dell'altra.

La balia mezzana, Giovanna, le era venuta incontro sulle scale: l'aveva trovata con gli occhi sbarrati dal terrore, le mani tremanti tese davanti a sé; l'aveva presa per i polsi e le aveva parlato piano, in modo da non spaventarla ulteriormente. Le aveva spiegato che Marianna, con un movimento un po' sbadato, doveva aver urtato uno scaffale della dispensa, facendo sì che parte delle provviste le cadessero addosso; nella confusione aveva perso l'equilibrio ed era rovinata avanti, battendo lo zigomo destro contro lo spigolo di una tavolata. Aveva perso i sensi ed era rimasta lì, per terra, con il volto sanguinante. Caterina, allertata dal rumore, aveva trovato la vecchia balia svenuta e, temendo il peggio, aveva urlato forte.

Tuttavia non c'era nulla da temere, poiché Marianna si era riavuta nel giro di qualche minuto e, benché fosse ferita, si era subito fatta animo. Lei stessa l'aveva vista vigile, con gli occhi timidi di chi si vergogna di essere stata involontaria causa di angustia. Galatea, invece, aveva il respiro leggero del sollievo e cullava i bambini per scacciare via, con una nenia appena mormorata, anche la loro paura.

Madre e figli rimasero all'aperto per una buona manciata di minuti, prima che lei si decidesse a rientrare. Fu una scelta dettata dall'istinto: era sicura che l'ambiente familiare della loro cameretta li avrebbe tranquillizzati facendoli sentire al sicuro. Nonostante le loro flebili rimostranze, li prese risolutamente per mano, spronandoli con un tono gaio e forzatamente stimolante. Li allettò con la prospettiva di giochi, di dolci, di fiabe: le piaceva concedere qualche vizio ai suoi bambini, mentre trovava insopportabile l'idea di non poterli proteggere...

«Ludovica? Dove sei, Vivì?» chiamò d'un tratto, accortasi che, per tutto quel tempo, la sua primogenita non era mai comparsa nel cortile.

Marianna, dalla sua seggiola nella dispensa, le rispose: «Signora, la marchesina mi aveva seguita qui prima che svenissi. Può darsi che per lo spavento sia corsa di sopra».

Galatea si immerse nella penombra della dispensa e ringraziò dell'indicazione, raccomandando in cambio tanto riposo. La balia annuì sfiorandosi la guancia tumefatta e promise mestamente che non sarebbe più stata d'impaccio. Dopo un cenno di caritatevole perdono, la marchesa si diresse verso la porticina che comunicava con il corridoio del pianterreno portando con sé i figlioletti riluttanti; ma, mentre attraversava un passaggio angusto tra alti scaffali di legno, si accorse di un lembo di vestito che faceva capolino da sotto un armadio per salumi. La assalì un nodo alla gola e si inginocchiò sul posto, chinando la testa fin quasi a toccare il pavimento.

«Vivì! Che cosa fai? Vieni fuori, su!» incespicò, tornata d'un tratto nervosa. Afferrò la bambina per un braccio, la sentì ribellarsi, trarsi più vicina al muro invece che consegnarsi a lei spontaneamente. Allora insistette: «Non aver paura, Vivì, ci sono qui io; c'è la mamma, Vivì, non ti succederà niente».

Ludovica cedette e strisciò fino a lei, il visino sporco di polvere, i capelli impiastricciati di ragnatele. Galatea la aiutò ad alzarsi, preoccupandosi prima di tutto di ripulirla dalla sporcizia. La sua espressione non nascondeva il disgusto, mentre celava abilmente l'apprensione che le rendeva difficile persino parlare. La bambina teneva gli occhi bassi, come se temesse una dura ramanzina; allo stesso tempo, però, la sua postura tradiva una paura ben più viscerale, una paura che la rendeva inanimata quanto una bambola di pezza.

«Andiamo, tesoro mio,» la incoraggiò con un buffetto sulla guancia, «vedrai che passerà tutto con una buona frittella. Ti va?»

Ludovica, accennando i primi passi verso la porta, non rispose: il suo viso rimase chino, le mani una nell'altra sul grembo. E Galatea, di fronte al suo mutismo, avvertì un'onda fredda risalirle per la schiena.

Una volta in camera, i gemelli si distrassero presto tra i giocattoli: Ippolito si mise in sella al cavallo a dondolo, immaginando una eroica galoppata nell'erba alta; Costanza, seduta sul letto, faceva rotolare una palla di stoffa sulla coperta. Ludovica, invece, se ne rimase seduta al tavolino: la frittella promessa da sua madre era lì davanti a lei, concessione non comune essendo già trascorsa l'ora della merenda. In altre circostanze ne avrebbe approfittato, perché era golosa; e proprio il fatto che non desse nemmeno un morso al dolcetto inquietò Galatea.

Anche la marchesa era rimasta nella camera per sorvegliare i suoi bambini; se i piccoli le sembravano completamente a loro agio e già dimentichi dello spavento di poco prima, la maggiore le dava sempre più da pensare che ci fosse altro dietro all'accaduto che un semplice incidente. Decise di accostarsi piano, in punta di piedi, e di sedere accanto a lei per non metterle più pressione di quanta non avesse già. Ludovica la guardò di sottecchi, poi volse lo sguardo altrove e, con la manina, allontanò il piatto con la frittella. Galatea la sollevò, la osservò bene, quindi la assaggiò, gustando il sapore dolciastro del miele e dell'olio mescolato alla morbidezza dell'impasto.

«Vivì, questa è la frittella più buona che abbia mai mangiato», confessò, per stuzzicarla; la bambina, però, tese le labbra e sussultò, chiudendo forte gli occhi.

«Se credi che io sia arrabbiata per il vestito, ti sbagli.» la rincuorò. «Quando siamo spaventati si fanno le cose senza pensare. Lo so che non avevi intenzione di rovinarti l'abito».

Si sporse verso di lei per accarezzarle la spalla, ma Ludovica si scostò titubante e un altro singhiozzo la scosse tutta.

«C'è qualcosa che vorresti dirmi, Vivì?» domandò allora, senza mascherare più la sua preoccupazione. Poi tacque per lasciare lo spazio alla bambina, per non subissarla di interrogativi inutili. La marchesina, per prima cosa, si morse le labbra senza trovare il coraggio di guardare la madre negli occhi. Era evidente che il desiderio di parlare era forte, molto forte, quasi incontenibile: eppure qualcosa la tratteneva.

«Vivì,» ritentò Galatea, «non devi aver paura. Dimmi cosa c'è che non va».

«Io l'ho visto», sussurrò, come se non volesse farsi udire da nessuno; la marchesa scattò sulla sedia, avvicinandosi al piano del tavolo: «Chi hai visto, amore mio?»

«Ho visto quell'uomo», aggiunse sibillina, portandosi le mani davanti alla bocca, quasi per zittirsi. Sua madre le accarezzò le dita, prima di abbassargliele per farla parlare ancora. Le scostò la sedia, la prese per le braccia e la tirò a sé, sistemandosela sulle cosce.

Sforzandosi di apparire tranquilla, chiese ancora: «Quale uomo, mmh? Raccontami un po', che sono curiosa».

«L'uomo che ha spinto la signora Marianna contro il tavolo...» piagnucolò, con le lacrime sul punto di scivolarle giù dalle lunghe ciglia scure.

Sposa di marcheseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora