Fine maggio 1676 pt. 3

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Al tramonto di due giorni dopo, più o meno alla stessa ora dell'arrivo della comitiva di Ferraris, un'altra fila di carrozze si delineò lungo la strada per il palazzo: questa volta non c'erano dubbi su chi fosse colui che stava arrivando e tutti, dalla servitù alla marchesa, erano in fibrillazione per il ritorno del padrone di casa. Un messaggero aveva annunciato, quella mattina, il prossimo arrivo del marchese di ritorno dalla capitale e da quel preciso momento i ritmi quotidiani erano stati stravolti.

Ora, poco dopo le sette di sera, i cancelli si aprivano; i cavalli della guardia ducale li superarono in testa al corteo, al trotto. Dietro di loro, la carrozza del marchese, con lo stemma dipinto sulle portiere, avanzava solennemente a passo d'uomo. Sul portone principale una fila di persone in abito elegante attendeva composta: al centro, la marchesa sfoggiava un vestito riccamente ornato di fiocchi, fiori e svolazzi sui toni del rosa; per mano, i due marchesini più piccoli guardavano affascinati uno spettacolo che, nei loro tre anni, avevano potuto ammirare raramente: Costanza, tra i due, era la più entusiasta di tale manifestazione di potere e rideva, mostrando i bei dentini bianchi da latte. Ippolito, da parte sua, era eccitato alla vista di così tanti cavalli bardati: alzando la mano libera e strillando vivace, intendeva imitare un comandante in sella al destriero pronto a dare il segnale di attacco. Ludovica, la maggiore, al fianco della madre, vestiva un abitino da signorina di un bel colore azzurro e di tanto in tanto toccava i boccoli che le scendevano sulle spalle per assicurarsi che fossero in ordine.

L'abate della Vergine stellata era accanto alla bambina, che ormai non lo temeva più: il timore iniziale, infatti, si era mutato in un profondo rispetto; i due monaci che l'avevano seguito lì aspettavano dietro di lui, in seconda fila.

Ferraris era speculare all'abate, si trovava cioè al fianco sinistro della marchesa. Il suo era il portamento fiero ed elegante del perfetto gentiluomo di corte e il suo completo, con tanto di spille appuntate sul petto, non faceva che dargli un'aria di serietà vanitosa.

Gli altri curiosi accorsi sul posto erano perlopiù servi e impiegati di palazzo, lì per salutare il loro signore.

La carrozza si arrestò lentamente tra sbuffi e nitriti dei quattro cavalli aggiogati. Il cocchiere smontò e si precipitò ad aprire lo sportello; il marchese, già in piedi, scese agilmente dalla vettura e si rialzò impettito, avvolto in un fine mantello scuro. Il primo saluto fu per la moglie, alla quale scoccò uno sguardo ricco di sfumature; lei gli corrispose un cenno più distaccato, abbassando repentinamente gli occhi per esortare i bambini ad accogliere il padre. Era come se volesse che i piccoli supplissero, con il calore del loro affetto, alla sua apparente freddezza. Ottavio non sembrò badarci, protendendosi con le braccia aperte all'irruenza dei tre figli. Tra loro, solo il maschietto conquistò l'onore di essere sollevato e tenuto in braccio.

«Bentornato, signore», disse Galatea, giungendo le mani all'altezza della vita; ma la sua voce mancava di sincerità, non perché lei non lo volesse lì, quanto piuttosto perché avrebbe preferito un'accoglienza più intima, senza tante presenze che in quel momento sentiva di troppo. Le sue labbra abbozzarono un sorriso quando Ottavio si avvicinò nell'intento di baciarle la guancia; non si sottrasse, ma nemmeno ricambiò. Il marchese fece semplicemente finta di nulla e si rivolse all'abate, profondendosi in un inchino che contrariò molto la piccola Costanza. Quanto a Ferraris, gli riservò due parole di circostanza poiché la sua vista non lo rallegrava affatto.

Data l'ora, i bambini furono condotti via per la cena e gli adulti si diressero nel salone, dove la tavola era già imbandita. L'atmosfera rimase molto ingessata: il marchese, che aveva appena avuto il tempo di cambiarsi d'abito, aveva la cera un po' abbattuta dalla stanchezza; sua moglie parlò poco e lasciò intendere di essere provata dalla lunga giornata di preparativi; gli ospiti, presto, percepirono un senso di vacuità. Ciascuno, dunque, fece del proprio meglio affinché la cena si consumasse in fretta.

Alla prima occasione, Galatea si congedò dalla compagnia per potersi riposare; non molto tempo dopo, Ottavio fece altrettanto. Licenziò anche la servitù subito prima di entrare in camera dicendo che si sarebbe svestito da solo. Varcò la soglia stringendo forte la maniglia e trattenendo il respiro; nella penombra intravide le cortine del letto a baldacchino perfettamente serrate, segno che sua moglie stava già dormendo. Chiuse la porta senza far rumore e si diresse verso il paravento, sicuro di trovarci la camicia da notte. Fece giusto in tempo a sollevare la camicia che una voce lo sorprese impreparato: «Sei qui?»

Era una voce del tutto diversa, che avrebbe potuto definire tremante e paurosa. Si volse di scatto, come se quelle due parole avessero rianimato dentro di lui uno spirito ormai annichilito.

«Sì, Tea», sussurrò, benché non ce ne fosse bisogno. «Sono qui.»

Udì il fruscio delle lenzuola e rimase immobile, come impietrito; tutti i suoi sensi erano tesi e la concentrazione gli faceva dimenticare persino la necessità di respirare. A un tratto, una mano scivolò nella fenditura tra le cortine, scostandone una; si aprì uno spiraglio scuro, in cui era impossibile distinguere nulla. Ottavio, prudente, stette fermo al proprio posto. E il viso di Galatea fece capolino.

I suoi occhi erano grandi e vigili, segno che, nell'attesa, non aveva nemmeno provato ad addormentarsi; l'aveva aspettato, certa che non avrebbe tardato. Lo guardava con aria titubante e curiosa insieme, aggrappata alla cortina con un atteggiamento languido, il mento posato sul polso senza realmente fare peso.

Ottavio desiderò terribilmente potersi avvicinare a baciarla, ma sapeva che non ne avrebbe tratto che ulteriore scoramento; perciò si ostinò a restare discosto, almeno fisicamente, quasi volesse spingerla a fare il primo passo. Galatea, d'altra parte, si limitava a guardarlo fisso con quegli occhi impenetrabili.

«Non vieni?» disse all'improvviso senza un'intonazione particolare.

Il marchese sollevò la camicia che stringeva ancora in una mano e gliela mostrò: «Prima volevo cambiarmi», spiegò, apprestandosi poi a slegare la cravatta.

«Che bisogno hai di metterti in camicia?» insistette lei, sporgendosi dalla pediera.

Ottavio perse qualsiasi interesse nel nodo della cravatta; senza sapere come, si ritrovò con le mani sulla medesima pediera da cui Galatea si affacciava, così vicino a lei da poterla baciare senza sforzo. Eppure si trattenne dal farlo.

«Tea,» disse piano, «non lo devi fare per forza.»

Il suo sguardo si fece più profondo e gli diede quasi le vertigini. «Non lo faccio per forza,» replicò infastidita, «ma perché lo voglio fare.»

Fu a quel punto che Ottavio la baciò: si prese tutto il tempo, le accarezzò la nuca e il collo, fece tutto quanto era nelle sue possibilità; infine si scostò, le sorrise e le sfiorò la guancia con un dito. «Lo vedi?» domandò rassegnato. «Sei svogliata, Tea. Vuoi farlo perché pensi che io lo voglia.»

Galatea sbuffò e scattò in ginocchio, afferrò la fibbia della cintura e la slacciò in un batter d'occhio; ma quel suo principio di ribellione durò giusto un momento, quindi si lasciò mollemente ricadere accovacciata com'era prima, con le mani sulla pediera e lo sguardo perso nel vuoto. Ottavio sentì stringersi il cuore di fronte al suo sconforto; si sentì impotente, per l'ennesima volta, come durante quel tremendo pomeriggio di febbraio. Per distogliere la memoria da un ricordo che avrebbe preferito dimenticare, afferrò le mani di lei, tremolanti, e la baciò di nuovo, ma sulla fronte, come a rassicurarla; quasi volesse far da padre anche a lei, sua moglie. E lei non gradì.

«Tu non mi vuoi, tu mi compatisci e basta. Io ti faccio pietà adesso.»

Non era la prima volta che glielo rinfacciava, eppure lui non era mai preparato a dissuaderla e questo non faceva che confermare le sue peggiori paure. Tacque anche allora, si morse le labbra e chiuse forte gli occhi. Un groppo gli stringeva la gola proprio quando avrebbe voluto parlare, gridare.

Galatea saltò via dalla pediera, tornando a coricarsi sotto le coperte; trasse le lenzuola con un movimento nervoso, le strattonò perché, impigliate tra i suoi piedi, non arrivavano a nasconderle il viso. Ottavio, nel frattempo, si era tolto la cravatta, aveva slacciato i polsini; aveva proseguito togliendo giacca, giustacuore e camicia, scarpe, calze e calzoni. La camicia da notte gli piovve addosso bruscamente, portando con sé un brivido di freddo. E un continuo sottofondo di lamenti lo rendeva riluttante all'idea di dover dormire accanto a una donna distrutta che non riusciva più a comprendere.

Sposa di marcheseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora