Galatea si concesse di sbirciare un'altra volta la piazza, ma non ne trasse giovamento: Ferraris non era tornato e ormai si stava facendo buio. Ludovica e Giovannino scalpitavano per la cena, nonostante ci fosse, sospeso nella stanza, un timore confuso per l'assenza dei due uomini. A loro era stato detto che Ottavio si era dovuto allontanare per proteggere la mascherata, a causa di certi sospetti della gente; dopo qualche domanda cui erano seguite risposte vaghe, i bambini avevano cessato di chiedere e si erano accontentati di tendere l'orecchio alle conversazioni degli adulti.
Ora che anche Ferraris sembrava intenzionato a passare la notte fuori casa, Galatea stentava a celare le preoccupazioni e adduceva strane scuse non richieste. Si toccava spesso il ventre, ma con ansia; non c'era nulla di sereno nei suoi modi e non c'era nemmeno la solita malinconia. Se qualcuno l'avesse vista appoggiarsi languidamente a uno stipite o avvicinarsi a passi svelti al camino, o sedersi dritta e impettita sulla seggiola per poi scattare subito in piedi, avrebbe potuto paragonarla a una gattina in calore che si struscia e si rotola con fare nervoso e scosta qualsiasi impiccio e presenza, anche quella gradita. Purtroppo per lei, nessuno avrebbe potuto consolarla.
Non mangiò quasi nulla, spiluccò soltanto una pagnotta che lei stessa aveva impastato quella mattina, ripetendosi che Alessandro sarebbe tornato insieme a Ottavio e che ogni cosa si sarebbe ricomposta. Ormai i ricordi le capitavano davanti senza che lei li cercasse; qualsiasi oggetto su cui posasse gli occhi le richiamava un dettaglio di quel pomeriggio di febbraio o dei giorni seguenti. Il tormento le stringeva la gola, Melancolia la incalzava. Per quanto si sforzasse di non prestarle ascolto, le sue parole erano sempre scelte con cura per procurarle dolore.
La ricacciava in un cantuccio e quella tornava con i suoi insulti, le sue cattiverie e i moniti paurosi. Alla fine, stremata da una lotta che non riusciva a condurre, decise di mettere a letto i bambini nella camera; sola nella sua cucina, impegnò corpo e anima nella pulizia meticolosa dell'ambiente per tenersi occupata e non pensare. Si stancò tanto che, a notte fonda, sedette su una sedia, posò la fronte sulle braccia chinandosi sul tavolo, chiuse gli occhi e si addormentò. Ma il suo sonno non fu un momento di ristoro alle sue sofferenze, anzi, ne fu il culmine; eppure, come il picco della febbre prelude alla guarigione, se il fisico è abbastanza forte da sostenerlo ed è fornito dei medicamenti necessari, così Galatea si accingeva a superare lo scoglio peggiore per potersi volgere alla convalescenza. La sua medicina era l'amore per Ottavio, ora più forte che mai, e la sua febbre fu questa: per cominciare, un velo nero si distese di fronte a lei, illudendola, per un attimo, con la promessa di un riposo senza altri turbamenti. Poi, pian piano, una parvenza di ricordo emerse dalle profondità della sua memoria.
Così, a un certo punto Galatea credette di trovarsi nel suo palazzo, ma la penombra della camera non le permetteva di riconoscere con certezza il luogo; come capita spesso nei sogni, l'ambientazione era poco nitida e lei si orientava più con l'istinto che non con la ragione. La ragione, anzi, le avrebbe fatto sospettare di trovarsi da tutt'altra parte; ma lei sapeva di essere a casa e si aspettava che qualcuno le venisse incontro a salutarla. Tuttavia, questo non si verificò, non subito, al che lei si mise a cercare, di propria iniziativa, la persona che avrebbe dovuto incontrare.
"Ippolito? Costanza?" chiamò. Spesso le facevano visita nei sogni poiché sentiva oltremisura la loro mancanza; vederli, anche se nelle fattezze volubili e incostanti tessute dalla notte, non le sarebbe dispiaciuto, tanto più che, in un sonno sempre più profondo, si convince di star vivendo eventi perfettamente reali.
Il suo vagabondare non la portò a nulla e per molto tempo le parve di non fare progressi. Si perse in intricati ragionamenti sul perché non riuscisse a scovare i bambini, che probabilmente si erano nascosti per farle uno scherzo; poi, ricordandosi in un attimo di un tentato rapimento, credette che i suoi figli le fossero stati portati via: ecco perché non c'era modo né verso di scoprire dove fossero!
Lì per lì, spaventata, prese a chiamare a gran voce: "Ottavio! Ottavio!" e Ottavio le comparve accanto come per magia. Una volta che fu lì, però, Galatea ricordò di non potersi affidare a lui; il perché, invece, non le era chiaro. Poi lo guardò meglio: era vestito da diacono, anzi da sacerdote, o forse addirittura da cardinale. Allora un'altra spiegazione le sovveniva alla mente: i bambini non c'erano perché lei non aveva mai sposato Ottavio.
"Madamigella," replicava infatti l'alto prelato, "io non vi conosco e mi dispiaccio di non potervi soccorrere. Domani prenderà avvio il conclave e io sarò eletto papa."
"Papa?" ripeté, quindi, guardandosi attorno, si disse: "Che stupida che sono! Certo che è papa, sono a Roma!"
In realtà, Galatea non era mai stata nella città del pontefice e ciò che vedeva di fronte a sé era un panorama confuso che, da sveglia, non avrebbe nemmeno saputo descrivere. In quel momento, però, era più che convinta di trovarsi a Roma e qualsiasi ricerca stesse intraprendendo, di sicuro non aveva a che fare con i suoi bambini. Poi, se il cardinale l'aveva chiamata madamigella, significava che non era sposata. Perciò, dopo aver ringraziato e baciato l'anello cardinalizio, si volse per tornare sui propri passi. Pure, il tutto non la convinceva, se non fosse che, un istante dopo, Ferraris le raccolse il braccio e la immobilizzò contro un muro.
"Ho buone notizie", sussurrò.
"Di che tipo?"
"So dove potrai incontrarlo."
"Chi?"
"Lo sai, tu mi hai chiesto di cercarlo per te."
Galatea, estremamente confusa, annuì e si fece dare le indicazioni necessarie. Seguendole si ritrovò in un luogo ancor più buio e indefinito di quelli precedenti e, oltretutto, ebbe come l'impressione di stare scendendo una scalinata. Nonostante i dubbi la assillassero da buona parte della sua avventura, non diede loro retta e si intestardì ad arrivare in fondo alla questione; avvertiva, nondimeno, un senso di fatalità e insieme di riluttanza, continuando a scendere.
Poi, d'un tratto, non ebbe più bisogno di muovere un solo passo: una persona stava in piedi di fronte a lei. Era questi che doveva incontrare, tuttavia non osò attirare la sua attenzione prima di averlo osservato.
Era un uomo, un ragazzo, e le dava le spalle. Non ricordava di aver mai conosciuto qualcuno che glielo ricordasse, eppure aveva un'aria familiare. Poi, scrutandolo, notò una somiglianza con Ottavio e pensò che fosse di nuovo lui, stavolta in abiti borghesi. A quel punto, allora, lo chiamò, già pronta a raggiungerlo. Ma quello, voltandosi, le mostrò un volto diverso da quello che si sarebbe aspettata e ciò la fece impietrire dov'era.
"Chi cercate, signora?" le domandò con voce piana e giovane, ma triste. Lei, turbata, rispose: "Non so chi cerco, in verità, ma mi hanno detto di venire qui".
"Allora forse cercate proprio me", concluse il ragazzo, abbozzando un sorriso malinconico.
"Ma io non so chi tu sia..." lo contraddisse, apprestandosi a scusarsi per il disturbo.
"Io so di certo chi siete."
Mosse un passo, ma si trovò impicciato da due grandi sacchi chiusi che giacevano ai suoi piedi, dividendolo da lei. Il ragazzo sospirò dispiaciuto, tese le labbra e abbassò gli occhi.
"Posso aiutarti a portare uno di quei sacchi, se vuoi", gli propose; lui negò prontamente: "No, l'avete fatto per troppo tempo, signora". Strano, perché non le sembrava di aver trasportato alcun peso; solo al pensiero, però, provò una grande stanchezza e cominciò ad ansimare come se avesse appena cessato da una fatica eccessiva.
Il ragazzo, sorridendole di nuovo, si chinò e afferrò le bocche dei due sacchi, caricandoseli in spalla. Galatea, amareggiata dalla scena, osò domandare: "Paiono molto pesanti..."
"Diventeranno più leggeri via via che il tempo passerà", la rincuorò, facendo per andarsene. E lei lo richiamò: "Parti già da me? Non mi hai detto chi sei, né perché dovrei cercarti..."
Lui si volse per guardarla un'ultima volta: "Sono Filippo, mamma. E questi sacchi, che vedete così pesanti, sono piedi delle vostre lacrime". E, datele le spalle, si avviò per la propria strada senza esitazione.
********
Angolo AutriceHo deciso di cambiar il nome del bambino perduto da Francesco in Filippo... cosa ne pensate?
A presto con il nuovo capitolo! ❤
STAI LEGGENDO
Sposa di marchese
Ficção HistóricaSequel di "Figlia di mercante" Una nuova, rocambolesca avventura sta per coinvolgere Galatea e la sua famiglia. Nessuno, nemmeno la sposa del marchese, può ritenersi al riparo dalle insidie della vita: ogni momento felice può racchiudere in sé il ge...