15 luglio 1676 pt. 4

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Le tremavano le mani, perciò faceva fatica a centrare la serratura del portone: come l'avrebbe trovato? La sua collera si era attenuata oppure era cresciuta ancora di più? Pure, nonostante la comprensibile paura di fronte a un rinnovato accesso d'ira, voleva vederlo, abbracciarlo, sentire che stava bene come aveva detto Ferraris.

Richiudendo l'anta dietro di sé, Galatea rabbrividì; una volta messo il piede sul primo gradino, fu tutta una corsa e un'arrampicata. La maniglia, stretta tra le sue dita fredde, si abbassò quasi magicamente. D'un tratto, quasi in un battito di ciglia, Galatea si trovò nella cucina e Ottavio, in piedi accanto al camino, la guardava.

Probabilmente si aspettava di vederla comparire, avvertito dal trambusto sulla tromba delle scale, ma non per questo si era mosso dalla propria posizione per andarle incontro; l'aveva attesa alla giusta distanza affinché fosse lei a decidere se avvicinarsi o meno, senza che avesse l'impressione di essere messa alle strette. Galatea, però, non badò a quella misura affettuosa se non a livello inconscio, tutta presa com'era a osservarlo meticolosamente. Anche lei, d'altra parte, percepiva nell'aria le vibrazioni dei loro sentimenti in contrasto e temeva di muovere un passo di troppo verso di lui: la colpa dell'adulterio le gravava sul cuore, anche se bilanciata da quel senso di pace che il sogno della notte precedente le aveva lasciato nelle vene.

Erano entrambi combattuti e tacevano, con il rischio che il silenzio si mutasse da complice benevolo a crudele tiranno del loro tanto sospirato incontro. Ottavio, con le mani dietro la schiena, non abbassò gli occhi un solo momento, pregandola, in un certo modo, di farsi avanti con la sua esuberanza di fanciulla, dimentico di aver di fronte una madre e non più una ragazzina; lei, invece, sperava che lui le tendesse la mano, le desse un cenno del suo perdono, prima di rivolgerglisi direttamente e magari offenderlo con la propria impudenza.

Esitavano e l'esitazione li smascherava senza possibilità di scampo l'uno all'altra, benché ambedue fossero troppo concentrati sulle proprie mancanze passate per accorgersi degli spiragli di luce che filtravano attraverso la scorza ferita del loro orgoglio.

«Siete proprio due teste dure!» inveì Fortuna, sbucando da dietro Galatea e fermandosi, veramente scocciata, tra i due innamorati alteri. Galatea tese le labbra e sentì inumidirsi le ciglia, sapendo di non poter domandare aiuto senza sembrare matta. Anche Ottavio, però, pareva avere la gola secca e il respiro affaticato, come talvolta sono i cani trattenuti al guinzaglio da un padrone irremovibile.

«Prima o poi sarà bene che uno di voi due dica qualche cosa!» incalzò Fortuna, rivolgendosi senza differenze a entrambi. Poi, girandosi verso Galatea, la redarguì secca: «Dimmi un po', cara, ti ricordi perché sei qui?»

Deglutì: aveva quella parola sulla punta della lingua, era sul punto di pronunciarla e sentiva il cuore ardere di un fuoco doloroso al solo pensiero di doverlo fare.

«Ti è necessario un cavadenti per parlare, figliola? Sai che le occasioni non sono per sempre...» minacciò, la voce distorta da un arrochimento che peggiorava di secondo in secondo. Galatea trasse un respiro e, chiudendo gli occhi, evitò di guardare verso Fortuna, poiché l'avrebbe di certo trovata pallida, con le occhiaie gonfie e il sorriso malevolo, pronta a voltarle la testa. E Melancolia, con un tono fioco ma velenoso, riuscì a intromettersi dicendo: «Sei troppo debole anche per chiedere perdono! Rassegnati, ormai l'hai perso per sempre!»

Le veniva da piangere trovandosi così incapace: una sola parola, una soltanto, e non riusciva a pronunciarla.

«Scusa.»

Non era sicura di aver capito bene; anzi, credeva proprio di aver udito una voce inesistente, un frutto della sua fantasia assalita dalla paura. Rimase immobile, il capo leggermente chino e gli occhi ostinatamente serrati, i denti stretti e quella parola, la stessa che aveva appena udito, intrappolata dentro di lei.

Sposa di marcheseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora