Capitolo 26

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New York,

Ashley

Eccomi qua, a distanza di due mesi nella mia cara città, una città dov'è cominciato il tutto.
Ogni strada, ogni negozio mi ricorda la vita perfetta che avevo... ma non posso lamentarmi di nulla, sono io ad aver scelto di vivere questa vita; i miei genitori volevano aiutarmi a rimediare, purtroppo ho sempre posto al di sopra di tutto il mio orgoglio, il mio nome, senza valutare i pro e i contro e quando lo feci era già troppo tardi per tornare sui propri passi.

Quando esco dall'aeroporto, stranamente trovo la macchina di mio padre ad aspettarmi con lui appoggiato allo sportello del passeggero intento a controllare qualcosa sul tablet.
Quando mi vede, lascia il tablet sul sedile del passeggero e mi viene incontro aiutandomi con la valigia.
«Com'è andato il viaggio?» chiede saliti in macchina mentre si riprende il tablet che li porgo.

Sorrido perché vedo che sta cercando di fare una minima conversazione decente con la propria figlia. È un po’ tardi per recuperare gli anni persi; ed è anche colpa loro, della loro assenza se conduco una vita di bugie.
«Tutto bene»
Ovviamente ho viaggiato in business class, giusto perché sono una Dallas e bisogna ostentare quello che si ha.
«Nessun ritardo?»
«Dacci un taglio, papà. Non è da te fare conversazione sulle cose banali. Perché mi sei venuto a prendere tu e non Gustave?»

Gustave è il nostro autista, è un uomo sulla sessantina d’anni, di bell'aspetto, alto. È privo di capelli, ha un leggero accenno di barba e sempre un sorriso sulle labbra. Tutti lo vogliono bene, perfino mia madre, ed è strano perché lei vuole bene solo a sé stessa e al suo guardaroba firmato.

«Avevo un po’ di tempo libero» si ferma con la macchina a Central Park.
«Come mai siamo venuti al parco e non a casa?»
«Voglio parlarti qualche minuto»

E quando Erick Dallas pronuncia questa frase non promette nulla di buono, soprattutto se si ritaglia del tempo per portarti a fare un giro al parco.
«Cosa è successo questa volta? Centro io?»
Annuisce solo. Non avevo dubbi. Sono pronta a sentire la condanna.
Iniziamo a camminare ma questo silenzio mi sta mandando in crisi, cosa deve dirmi? Di cosa si tratta?
«Vogliono riaprire il caso» mio padre sembra leggermi nel pensiero perché non perde tempo a sganciare la bomba.
Mi fermo all'istante e lui fa lo stesso.

Ha la classica compostezza di un perfetto avvocato: completo scuro, camicia e cravatta, occhiali da sole e mani che mantengono una ventiquattrore di pelle nera, esclusivamente firmata, dietro la schiena.
«Possono farlo?» domando immediatamente
«Purtroppo sì»
«Per quale motivo?»
«Hanno trovato delle lacune in alcuni punti del caso»
«Come?»
«Non lo so. Forse i genitori non si sono dati pace nel fatto che non hanno trovato il responsabile»
«E?»
«E il tuo alibi non potrebbe più reggere, soprattutto se notano che non hai frequentato più le lezioni dopo quella notte»
«Non può succedere, papà» aggiungo afflitta
«In questi giorni ci ho riflettuto»
«E?»

Mio padre si siede su una panchina e mi incita a fare lo stesso. Rifiuto di sedermi, l’ansia sta iniziando ad attanagliarmi lo stomaco.
Estrae dei fogli dalla sua ventiquattrore e me li passa.
Inizio a leggere avendo già capito cosa significa, ma voglio sentirlo da lui, magari sto leggendo male.
«Cosa significa?»
«Con i giusti attenuanti potresti avere solo un anno, massimo due anni di condanna»
Inizio a ridere in modo isterico facendo su e giù per il parco davanti a lui torturandomi con le mani alcune ciocche di capelli che non vogliono sapere di starsene dietro l'orecchio.
«Davvero vuoi condannare tua figlia?»
«Ascolta...»
«No! Non ho intenzione di pagare una colpa che non ho commesso! Non voglio buttare tutta la mia vita!»
«Non è vita quella che hai, Ashley!»
«È migliore di finire in prigione senza colpa!»
«Sei sicura di essere innocente? No Ashley! Non siamo sicuri. Tu non ricordi assolutamente nulla di quella notte!»
«Grazie papà! Non lo sapevo»

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