Capitolo 37 - Il momento dei saluti.

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PDV Simona.

I giorni passarono e velocemente passarono anche le settimane, ne passarono 3. Tre lunghe settimane senza parlare come sempre con Barbara, senza baciarla, senza vederla fuori dalla scuola. Avrei potuto lasciar perdere ciò che mi disse e andare a casa sua ma non lo feci, volevo che capisse che la rispettavo e che appunto rispettavo ogni sua scelta, anche la più folle. Un giorno, quando il pensiero di una separazione si faceva più vivido nella mia testa, chiesi a mia madre cosa avesse fatto se fossi partita per trasferirmi a chilometri e chilometri di distanza, lei inizialmente non capì il perché di quella mia domanda e ci pensò bene a cosa dire.
«Perché vuoi andare via? Non dicevi che volevi restare qui e continuare gli studi?» mi chiese piuttosto confusa.
«Sì, ma posso continuarli anche a Milano.» risposi io subito dopo, in fondo le università erano quasi ovunque.
«Questo lo so, ma chi te li pagherà?» continuò lei come se volesse trovare una scusa per convincermi a non partire.
«Potrei trovare un lavoro e pagarmeli io.» dissi con tutta la tranquillità del mondo.
Lavorare non mi spaventava, stare lontana da casa nemmeno, ciò che in quel momento mi spaventava decisamente molto era il pensiero di dover stare senza Barbara.
«Tu?» domandò con un velo di sarcasmo.
«Sì, io! Pensi che non ne sia in grado?» chiesi innervosendomi leggermente.
«No, non intendevo questo ma... Non ti mancheranno i tuoi amici? E Cristina? Se te ne andrai non la vedrai più.» commentò lei che non sapeva praticamente nulla di ciò che successe tra me e lei, non sapeva nemmeno che era una mia ex, per lei noi eravamo solo amiche.
«Cristina non la vedo già più se non a scuola.» le spiegai sbuffando leggermente, non mi andava proprio di parlare di Cristina.
«Come mai? Avete litigato?» continuò mia madre con fare insistente.
«Senti, mamma, non ne voglio parlare, ok?» sbottai alla fine alzandomi dalla sedia su cui ero seduta.
«Perché? Sono mesi che non parliamo, una volta mi dicevi tutto.» disse lei ingenuamente.
I genitori credevano sul serio di conoscere i propri figli al 100%? Erano davvero tanto ingenui da pensarlo? Non sapevo nemmeno io come fossi, ogni giorno scoprivo un lato nuovo di me che mi colpiva, e lei non poteva sul serio essere sicura che ogni cosa che le dicessi fosse tutto ciò che avevo da dire. Io dosavo bene le mie parole, ogni cosa che dicevo era pensata almeno una trentina di volte, e tante cose evitavo di dirle a lei non sapendo cosa ne pensasse.
«"Una volta" infatti, quando avevo 10 anni. Adesso sono cresciuta.» ribattei calmandomi un po' e sedendomi di nuovo di fronte a lei accanto al tavolo che avevamo in cucina.
«E questo cosa vorrebbe dire? Sei cresciuta e quindi non devi più parlare con tua madre?» protestò lei in modo piuttosto nervoso, prendeva tutto troppo sul personale, ma in fondo non credevo che lei dicesse tutto a sua madre.
«No, non è questo, ma a 10 anni non avevo nulla per la testa ed ogni mio pensiero era piuttosto futile. Adesso ogni cosa che mi passa per la testa mi sembra un macigno che si posa sullo stomaco e non mi fa respirare.» le confessai pensando che forse avrei potuto sul serio sfogarmi con lei, magari non sarebbe stato così traumatico come immaginavo.
«Perché? Che cos'hai che ti turba? Parlane con me, magari posso aiutarti.» continuò lei allungando le sue mani verso le mie e stringendole forte, voleva provare a darmi coraggio ma era dannatamente difficile.
«Non puoi farlo, nessuno può farlo.» ribattei tristemente.
«C'entra un ragazzo?» mi chiese lei con un piccolo sorriso.
Eccola lì, di nuovo, imperterrita da quasi 5 anni. Continuava a chiedermi se ci fossero dei ragazzi nella mia testa ogni volta che vedeva che qualcosa non andava, o anche ogni volta che mi vedeva felice. Credeva che il mio umore dipendesse da quello, esclusivamente da quello. Per carità a volte aveva ragione lei ma sbagliava semplicemente il sesso.
«C'entra una ragazza!» replicai sfilando le mie mani da sotto alle sue e alzandomi di nuovo in piedi nervosamente.
«Una ragazza? In che senso?» continuò lei in tono confuso.
«Sono lesbica, mamma.» le confessai dopo un lungo respiro profondo.
Dire quelle parole ad alta voce mi fece sentire bene, mi fece sentire più libera, come se quel grosso macigno si fosse sciolto di colpo. Non sapevo bene cosa aspettarmi da mia madre, in quella casa non si parlava mai di molte cose e non sapevo cosa ne pensasse. Inizialmente mi guardò un po' confusa, in quegli anni non le diedi mai modo di dubitare della mia eventuale "eterosessualità", ma non parlavamo poi molto, non ci vedevamo spesso se non a pranzo o a cena quindi ogni idea su di me era solo una sua ipotesi infondata e mai appurata. Lei mi guardò in silenzio per circa 3 minuti, cambiò espressione più volte, alla fine mi sorrise anche, ma era un sorriso sarcastico. Non mi credeva, era evidente, pensava fosse una battuta ma in cuor suo sapeva che non mi piaceva scherzare su determinati argomenti, me la prendevo sempre molto quando magari guardavamo un film insieme e in quel film c'era una persona omosessuale che veniva bullizzata.
«No, non è vero, tu mi stai prendendo in giro.» commentò lei poco dopo senza togliersi quel sorriso sarcastico dal viso.
«Che motivo avrei di prenderti in giro per una cosa del genere?» le chiesi cercando di tenere a bada il mio tono di voce.
«Beh non lo so ma tu scherzi sempre.» si giustificò lei.
«Sì, è probabile, ma non in questo momento.» protestai voltandomi e uscendo da lì.
Dopo quella breve discussione non parlammo più molto, né della mia omosessualità né della mia volontà di partire per una città lontana, anche se il mio voler partire era dettato solo dalla futura partenza di Barbara che sembrava sempre più lontana da me. Di solito, quando mia madre vedeva che tra noi c'erano dei problemi, provava in tutti i modi a farmi parlare, in quel caso no invece. Gli argomenti che uscirono fuori le facevano paura, si capiva, non voleva parlare di una mia partenza e nemmeno dei miei gusti sessuali. In un certo senso non capivo se avesse accettato tutto quanto, ma credevo che volesse solo evitare di parlarne, ed evitare di parlarne voleva dire "fingere che non era vero". Io me lo feci andar bene lo stesso, non dovevo dimostrarle nulla, non dovevo nemmeno convincerla ad accettarmi, io mi andavo bene com'ero e sinceramente avevo altri problemi più importanti per la testa.
Arrivò marzo, arrivò l'aria primaverile che tanto odiavo, e con loro arrivarono anche delle brutte notizie. Barbara ci disse che il professore stava meglio, che a breve sarebbe tornato e che di conseguenza lei sarebbe andata via.
«Non so di preciso quando andrò via ma voglio ringraziarvi tutti già adesso. Voglio ringraziarvi perché nonostante fossi nuova e inesperta mi avete accolta bene tra di voi, certo a parte qualcuno, ma non posso piacere a tutti.» commentò lentamente alludendo al fatto che a Cristina non piacesse affatto, ma almeno per la maggior parte della classe poteva esser fiera del suo lavoro.
Alcuni erano visibilmente tristi, altri si erano affezionati talmente tanto che con quelle poche parole si stavano facendo venire le lacrime agli occhi mentre io stringevo forte il nodo allo stomaco e tentavo di resistere fino alla fine dell'ora. Non volevo piangere, non mi piaceva farlo davanti ad altri, benché meno davanti ai miei compagni e per una professoressa, nonostante per me fosse molto più di una semplice professoressa. Durante il suo discorso non mi guardò mai, forse anche per lei era difficile parlarmi di un eventuale addio anche se era una cosa possibile, insomma lei lì era provvisoria e lo sapevamo già, ma nella mia testa non ci entrò mai sul serio, la vedevo come una cosa impossibile. Concluse il suo discorso poco prima che suonasse la campanella, lo concluse dicendo che le sarebbe piaciuto portarci all'esame, che non le era possibile ma che sapeva che ognuno di noi ce l'avrebbe fatta. Mai frase fu più sbagliata. Io senza di lei mi sentivo persa, mi ero affezionata talmente tanto a lei che il solo pensiero di non vederla più mi faceva stare male. Acconsentii a quei giorni di "pausa" solo perché potevo vederla a scuola, solo perché nella mia testa non era una vera e propria pausa, ma se lei fosse andata via allora non avrei sopportato più nulla. Quando la campanella suonò, era l'ultima di quella giornata, i miei compagni si avviarono verso l'uscita salutando calorosamente Barbara, alcuni l'abbracciarono anche nonostante lei avesse detto che quello non era il suo ultimo giorno. Io però non mi avvicinai subito alla porta, mi presi tutto il tempo del mondo e feci tutto con calma mentre i miei compagni uscirono lentamente. Quando gli ultimi 3 ragazzi si avvicinarono alla porta io presi il mio zaino e mi avvicinai alla cattedra dove c'era Barbara che era in attesa per uscire.
«Non puoi andare via, non senza di me.» le dissi in tono piuttosto basso mettendomi di fronte a lei, con solo la cattedra a dividerci.
«Sapevi che sarei andata via, sapevi che non sarei rimasta per sempre, e sapevi anche che non ti avrei portata con me. Perlomeno non ora che hai ancora 3 mesi di scuola, esame incluso.» mi spiegò lei con un tono calmo, forse fin troppo per i miei gusti.
«Me ne sbatto dell'esame.» sbottai subito.
Lei uscì velocemente da dietro alla cattedra e si posizionò accanto a me, io mi voltai per averla di fronte e lei mi poggiò subito una mano sul viso. Con quel semplice tocco mi fece tornare l'ansia addosso, tutta la tristezza che provai durante il suo breve discorso si fece strada sul mio viso e sentii il labbro inferiore iniziare a tremarmi. Lo fermai tenendolo stretto tra i denti ma le lacrime spingevano per uscire, e quelle non sapevo come fermarle.
«Piccola, non puoi fare così.» disse mentre sentii una lacrima rigarmi il viso, ma lei prontamente l'asciugò.
«E tu non puoi chiamarmi piccola.» ribattei togliendomi la sua mano dal viso nervosamente.
«E come vuoi che ti chiami?» mi chiese in tono scherzoso ma io non avevo voglia di scherzare.
«Non chiamarmi proprio!» risposi subito dopo, e sentendo delle lacrime di troppo scendermi sul viso le passai velocemente accanto e uscii dall'aula.
Non volevo continuare a piangerle davanti, non volevo continuare a sentirmi vulnerabile, e purtroppo con lei mi ci sentivo molto. Ritornai a casa velocemente, nonostante fossi a piedi, e rimasi nella mia camera per quasi tutta la giornata, fin quando mio padre non tornò dal lavoro e non ricominciò ad urlare contro mia madre per cose insensate. Io non ce la facevo più, quel giorno non volevo fare altro che crogiolarmi nel mio dolore stando comodamente sdraiata sul mio letto senza sentire nessuno, ma con le urla di mio padre che rimbombavano per tutta la casa mi risultava un po' difficile. All'improvviso sentii anche mia madre urlare, ma era più che altro un urlo di dolore, non un botta e risposta classico. D'istinto mi alzai dal letto, ero ancora completamente vestita da quella mattina, avevo persino le scarpe, in pratica quando arrivai a casa mi sdraiai sul letto e non mi mossi più. Uscii dalla mia camera e mi avviai subito verso il piccolo salotto da cui provenivano le urla di mio padre. Non appena entrai lo vidi in piedi di fronte a mia madre, che a differenza sua era piegata sulle ginocchia, piangeva e si teneva una mano sulla guancia sinistra. Quella non era la prima volta che litigavano pesantemente, non era la prima volta che mio padre alzava le mani su di lei, ma fu la prima in cui io mi misi in mezzo. Di solito mi chiudevo in camera, evitavo ciò che succedeva fuori per paura che la reazione di mio padre potesse essere peggiore, ma in quel momento non mi importava più di nulla. Non capivo perché certe persone si ostinassero a restare insieme nonostante la loro relazione non fosse più buona, era stupido continuare una storia se ogni giorno uno dei due alzava la voce, ma era ancora più stupido se uno dei due alzava le mani. In quel momento mio padre era fermo, l'unica cosa che continuava a muovere era la bocca. Urlava, ancora, urlava contro mia madre e le diceva di alzarsi, di mettersi in piedi, ma lei continuava a piangere sperando nella pietà di mio padre, ma lui non sapeva nemmeno cosa fosse.
«Smettila di alzare le mani sulla mamma!» protestai io avvicinandomi velocemente a loro e posizionandomi accanto a mia madre, di fronte a lui.
«Fatti gli affari tuoi.» commentò lui alzando lo sguardo su di me e tenendo quel tono di voce sempre piuttosto alto.
Nel frattempo mia madre si alzò in piedi, velocemente si asciugò il viso e mi poggiò una mano dietro le spalle.
«Simona, vai in camera tua.» mi disse con un filo di voce ma io non mi mossi da lì.
Mio padre sorrise spavaldo, soddisfatto del fatto che mia madre fosse tornata in piedi. Subito smise di guardare me e si concentrò su di lei, alzò velocemente la sua mano destra ma io lo fermai prima che potesse fare ulteriori movimenti. Lo bloccai con una mia mano ma ovviamente io non avevo la stessa sua forza. Lui provò a muovere il braccio e a tirarlo verso di se ma per 3 secondi buoni riuscii a tenerlo fermo, poi si liberò e mi diede uno schiaffo sul viso. In tanti anni non ricordavo mai una sola volta in cui lui alzò le mani su di me, diceva che anche se litigava con la mamma io non c'entravo nulla e con quel ragionamento feci passare ogni loro litigio. Dopo quello schiaffo rimasi ferma al mio posto, col viso rivolto verso il pavimento alla mia destra, ero sconcertata da ciò che successe e lo era anche mio padre. Nonostante fosse ubriaco si rese conto di ciò che fece e subito si pentì, stranamente si pentì di quell'unico schiaffo che diede a me ma non si pentì mai di tutti quelli che diede a mia madre. Lui provò ad allungare una mano verso il mio viso ma io mi spostati prima che riuscisse anche solo a sfiorarmi.
«S-Simona, mi dispiace.» disse con una voce quasi tremante ma io ero furiosa.
Ce l'avevo con lui perché era tanto debole da lasciarsi trascinare in basso dall'alcol nonostante dicesse spesso di voler smettere, ce l'avevo con mia madre perché nonostante quella storia andasse avanti da anni lei non lo lasciava, e ce l'avevo con me perché per il mio stupido orgoglio e la mia stupida paura del "nuovo" stavo lasciando andare Barbara senza fare niente. In quel momento ce l'avevo con i miei per avermi fatta nascere e per avermi fatta crescere in quel modo, un modo tanto patetico pieno di codardia e privo di coraggio.
«Pensa a cosa è giusto prima di fare una cosa, soprattutto non essere egoista.» mi ripeteva mia madre.
Lei provava a farmi ragionare con la mia testa, mi faceva capire che avevo sempre un margine di scelta, ma mio padre ci metteva il carico pesante buttandomi a terra con parole del tipo "lascia stare, non serve a niente. È impossibile. E se non ce la facessi? Ci rimarresti malissimo".
«E se invece ce la facessi?» avrei voluto chiedergli ogni volta ma le parole mi restavano in bocca, non uscivano fuori per paura.
Dannate e stupide paure del cazzo. Credevo che lui avesse ragione, credevo che lui ne sapesse più di me essendo più grande e con più esperienza, ma forse avrei dovuto andare un po' contro i suoi pensieri piuttosto che assorbire tutta la sua negatività. Non sapevo cosa fare, in quel momento mio padre si calmò molto ma io non avevo proprio voglia di star lì con loro, in quel momento li odiavo entrambi. Mio padre provò di nuovo a fare un passo verso di me ma io ne feci uno all'indietro, alzai lo sguardo su di lui e lessi sul suo viso tutta l'amarezza che provava ma a me non importava. Velocemente gli passai accanto, uscii da quella stanza e senza perdere altro tempo uscii di casa. Corsi velocemente giù per le scale e una volta uscita fuori dal palazzo iniziai a camminare velocemente verso una meta che non avevo in mente, volevo solo allontanarmi il più velocemente possibile da lì. Sentii delle lacrime bagnarmi il viso ma me le asciugai subito, non volevo piangere più, ero stanca di farlo. In testa sapevo chi poteva aiutarmi a stare meglio, sapevo chi mi avrebbe fatto tornare il sorriso sul viso, ma sapevo anche che non potevo andare da lei. Non potevo andare da Barbara, lei aveva altre cose a cui pensare e non era giusto che le mettessi i miei problemi nella testa. Ma in fondo non lo pensavo sul serio, avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, con lei, ma l'unica cosa che mi dava fastidio era che potessi disturbarla, non si rivelò molto disponibile in quegli ultimi giorni, anche se alla fine io non le chiesi mai nulla. Dopo un indecifrabile periodo di tempo arrivai davanti al bar di Greta, subito ci entrai poiché i miei non lo conoscevano e non mi avrebbero mai cercato lì. Ordinai un paio di drink, nonostante fossi da sola, e andai a sedermi ad un tavolino in fondo al locale. Quando mi resi conto di ciò che stavo facendo mi venne da ridere, ero più simile a mio padre di quanto non volessi credere, anche se quella fu la prima volta che bevvi degli alcolici ma dopo poco iniziò già a girarmi la testa e nonostante il sapore mi facesse schifo continuai a bere incessantemente. Sentivo la testa sempre più leggera ma lo stomaco era più pesante, bastarono quei due drink per farmi venire un bel mal di stomaco ma probabilmente se Cristina non mi avesse fermata avrei continuato a bere. Lei stranamente era da sola, non c'era né Maria né qualcuna delle sue eventuali conquiste e, a meno che non attendesse qualcuno proprio in quel bar, ci venne solo per fare un giro come suo solito.
«Ehi, cosa ci fai qui tutta sola?» mi chiese inizialmente con un tono provocatorio ma poi notò la poca voglia che avevo di scherzare e cambiò subito tono. «Stai bene?» continuò con un tono più triste, quasi sembrava le dispiacesse sul serio dello stato pietoso in cui ero.
Io continuai a non risponderle, non la guardai nemmeno in faccia e bevvi l'ultimo sorso del liquido trasparente che c'era nel mio secondo bicchiere.
«Ma è alcol questo?» domandò strappandomi il bicchiere ormai vuoto dalle mani. «Simona, mi spieghi cosa diavolo succede?» ricominciò con un tono più duro prendendo il mio viso tra le sue mani e facendo incrociare i nostri sguardi.
Il suo sembrava piuttosto nervoso mentre il mio era sicuramente spento, non avevo più molta voglia di fare nulla e ogni cosa mi sembrava non avere senso.
«Mi parli per piacere?» continuò con quel suo dannato tono autoritario e io non seppi far altro che raccontarle tutto.
Avevo bisogno di sfogarmi, di dire a qualcuno tutto ciò che avevo dentro e non mi importava se Cristina non fosse proprio la persona adatta. Lei sapeva già quelle cose, sapeva già ciò che succedeva in casa mia, era l'unica a saperlo ed era più facile parlarne con lei che con qualcuno che non ne sapesse proprio nulla, Barbara inclusa. Con quest'ultima, in quel momento, avrei voluto parlare di altro, del trasferimento che avrebbe dovuto evitare. Ma davanti a me non c'era lei, c'era Cristina che mi ascoltava pazientemente come ogni volta che le raccontavo dei miei problemi. Era strano tornare a parlare con lei in quel modo, senza filtri, senza rabbia (almeno non indirizzata verso di lei) e senza nessun pensiero. Alla fine del mio lungo sproloquio lei mi accarezzò il viso, mi rassicurò dicendo che sarebbe andato tutto bene e mi abbracciò. Io provai a credere alle sue parole e ricambiai quell'abbraccio. Di sfuggita, davanti alla porta del locale, vidi una figura familiare uscire fuori e subito mi staccai da Cristina. Lei mi chiese spiegazioni ma le dissi semplicemente che dovevo andare. Mi allontanai a passo svelto facendo lo slalom tra quei tavolini che mi dividevano dall'uscita e in pochi istanti arrivai alla porta. L'aprii e uscii subito fuori. Nel frattempo il cielo si fece più scuro e i lampioni erano l'unica cosa ad illuminare quelle strade, le macchine erano poche e i negozi avevano già chiuso da un po'. La figura che vidi di sfuggita era quella di Barbara, la vidi anche in quel momento, fuori dal locale, si allontanava per quella strada buia. Subito accelerai il passo, iniziai anche a correre per raggiungerla, e non appena le arrivai abbastanza vicino la chiamai. Lei si fermò di colpo e io rallentai fermandomi poi a pochi passi da lei. Lentamente si voltò e non appena incrociò il mio sguardo mi sorrise, ma era un sorriso triste.
«Ehi ciao.» la salutai mentre sentivo il mio cuore andare a mille.
Lei non rispose, mi guardò in silenzio per alcuni secondi come se stesse pensando a cosa dire, mi scrutò per bene con i suoi occhi scuri e alla fine notò sul mio viso qualcosa di strano.
«Che cos'hai lì?» mi chiese sfiorandomi delicatamente lo zigomo sinistro.
«Non è niente.» risposi subito prendendo quella sua mano e stringendola nella mia.
Non avevo voglia di parlarle dei miei problemi, non avevo voglia di parlarle della mia incasinata famiglia, avevo voglia solo di starle vicina il più possibile. Lentamente mi avvicinai a lei, inizialmente esitai anche, ormai non sapevo più come comportarmi, ma quando fui abbastanza vicina l'abbracciai sperando che quel momento non passasse mai.
«Piccola, che cos'hai?» chiese portando una sua mano dietro la mia nuca sotto ai capelli.
«Non ho niente...» mentii io sentendo un dannato magone allo stomaco. «Solo che... Non te ne andare, ti prego.» la supplicai tenendola stretta tra le mie braccia.
Lei sorrise, non la vidi ma la sentii, sapeva che stavo male per quella sua eventuale partenza e sembrava non volesse proprio saperne di rimanere lì con me. Non era stronza, era solo matura, più matura di me. Lei pensava al suo lavoro che l'attendeva nella sua città mentre io cercavo in tutti i modi di aggrapparmi alla più piccola speranza che lei restasse lì con me. Ovviamente io mi stavo solo illudendo. Lei mi stampò un bacio sulla testa e lentamente mi fece staccare dal suo corpo, portò due dita sotto al mio mento e mi costrinse a guardarla negli occhi, senza di lei non ne avrei avuto il coraggio.
«Mi dispiace ma devo farlo, il tuo professore sta meglio già da un po', si è ripreso prima del previsto e io devo tornare a casa. Pago l'affitto ogni mese e tra qualche giorno scadrà, anche l'auto non è mia. Pensavo che sarei rimasta di più ma è andata così, potrai comunque venire a trovarmi una volta preso il diploma.» commentò lei facendomi un piccolo sorriso e provando a smuovere anche me ma io non ne avevo proprio voglia.
«Quindi resterai qui per altri pochi giorni?» continuai sperando che mi desse una risposta negativa ma tutto faceva intendere il contrario.
«Purtroppo è così, ma non mi dimenticherò di te.» disse in tono incerto.
«Mi stai dicendo addio?» le chiesi nervosamente.
«C-cosa? No, certo che no. È solo che non so cosa fare. Ho accettato questo lavoro per fare esperienza, perché senza nulla sul curriculum non ti prendono sul serio, anche se dubito che qualcuno li legga davvero. Non pensavo di incontrare te, non pensavo nemmeno che mi sarei sentita tanto male.» mi spiegò accarezzandomi lentamente il viso.
Sentire le sue parole, vedere la sua espressione particolarmente triste ma con quel sorriso che non voleva saperne di andarsene, mi fece stare anche peggio. Sentii delle lacrime scorrermi lungo il viso ma non le asciugai, non provai nemmeno a nascondere tutta la tristezza che provavo, era inutile mostrarsi forte. L'unica cosa che mi faceva rabbia era che mi sentivo una stupida, nella mia testa ripensai alla prima volta che vidi Barbara, alla prima volta che si presentò davanti a me in quello stesso bar e come fu insistente solo perché voleva conoscermi. In un certo senso ce l'avevo anche con lei. Perché diavolo ci provò con me se poi alla fine sapeva che sarebbe andata via??
«Non piangere, ti prego.» disse asciugandomi delle lacrime ma subito mi tolsi le sue mani dal viso con una tale rabbia che sconvolse anche me. «Perché fai così?»
«Come dovrei fare? Dovrei essere contenta di questa cosa? Dovrei essere felice del fatto che tu vada via senza di me? Perché diavolo ci hai provato con me se sapevi che saresti andata via?» sbottai urlando non poco, per fortuna le strade erano quasi del tutto deserte e forse le uniche persone che potevano sentirmi erano quelle in quel bar a pochi metri da noi.
«Ehi calmati, possiamo parlarne con calma a casa mia?» domandò lei tenendo un tono più calmo del mio.
«No, io non voglio calmarmi. Tu mi hai solo illusa, mi hai presa in giro, sei una stronza!» esclamai con tutta la rabbia che avevo in corpo ma subito dopo me ne pentii.
Non pensavo che fosse una stronza, ero solo particolarmente nervosa. Mi sentivo con le spalle al muro, come se dovessi accettare per forza quella cosa senza poter fare altro. Certo insultarla magari non era una cosa giusta da fare ma era colpa sua se eravamo a quel punto, io nel giorno del nostro primo incontro volevo solo stare da sola, fu lei a presentarsi a me. Tenni un espressione nervosa per tutto il tempo, non volevo che pensasse che mi pentissi di qualcosa che avevo detto, e lei invece non sembrava essere particolarmente scossa dalle mie parole.
«Hai ragione...» commentò spiazzandomi decisamente. «Ma solo sulla parte del mio essere stronza, a quanto pare è vero.» continuò con un tono particolarmente triste. «Sono stata egoista, ho pensato solo a me, ho pensato solo a ciò che volevo io e non a ciò che sarebbe potuto succedere. Mi dispiace, questo sì, ma non mi pento di nulla.» disse concludendo la frase con un tono lievemente spavaldo.
«Ah no?» le chiesi con un leggero accenno di sarcasmo.
«No, perché dovrei pentirmi di qualcosa? Ho conosciuto te, che sei fantastica, sono stata bene con te e non è detto che questo sia un addio.» rispose portando una sua mano sulla parte sinistra del mio viso e accarezzandomi lentamente.
Lei provava a darmi coraggio, a farmi capire che magari sarebbe tornata, ma nella mia testa vedevo tutte quelle cose come gesti di chi voleva trovare un modo semplice, veloce e indolore per liberarsi di una semplice distrazione, di un passatempo interessante che aveva ormai fatto il suo corso. Avevo avuto a che fare con Cristina, colei che sembrava non provare affetti per nessuno, ma solo attrazione, e quando quest'ultima svaniva allora lo faceva anche la persona nella sua testa, ma Barbara non era Cristina. Barbara era diversa, lo fu sempre, in ogni istante. Me lo dimostrò spesso, ma nonostante tutto io continuavo a provare rabbia nei suoi confronti, misto ad una tristezza che mi faceva male allo stomaco.
«Dai, vieni con me, ti accompagno a casa.» disse all'improvviso togliendomi la mano dal viso.
Il cuore mi salì subito in gola, non volevo tornare a casa, e non per ciò che successe con mio padre ma bensì perché avevo una paura fottuta che ogni saluto con lei sarebbe stato l'ultimo.
«N-no, non voglio andare a casa.» protestai con un tono dannatamente tremante.
«E dove vuoi andare?» continuò con un sorriso particolarmente dolce che mi fece dimenticare del tutto l'uso della parola. «Va bene, ho capito.» aggiunse dopo pochi istanti.
Si avvicinò di più a me, mi stampò un bacio sulla fronte e lentamente mi prese una mano e la strinse forte nella sua, poi senza dire nulla mi convinse a seguirla e nel giro di pochi minuti ci ritrovammo nel suo appartamento. Quest'ultimo era piuttosto vuoto, non più di quando andai la prima volta ma le uniche cose che c'erano erano i mobili, e se fino a quel momento non volevo credere che stava andando via davanti a quella scena non potevo fare altro che crederci. Davanti all'ingresso, a terra in un angolo, vidi dei cartoni piegati su se stessi, cartoni che probabilmente non avrebbe utilizzato. Lentamente arrivammo nel salotto, mi fece sedere lì su un divano e lei andò a prendermi un semplice bicchiere d'acqua. Io lo svuotai velocemente ma nonostante tutto continuai a non riuscire a dirle nulla, sentivo che ogni cosa che avevo in mente era inutile e per quanto mi sforzassi lei sarebbe partita lo stesso.
«Piccola, mi parli per piacere?» commentò lei provando a smuovermi un po'.
«A quale scopo?» le chiesi alzando il mio sguardo sul suo viso. «Tanto non c'è nulla che io possa dire che ti farà cambiare idea.»
«E quindi vuoi passare questi ultimi momenti con me in questo modo?» domandò lei sfiorandomi delle ciocche di capelli.
«Cosa vuoi che faccia? Non ho la forza di fare nulla, ogni mio pensiero mi sembra stupido e inutile...» le spiegai sentendomi dannatamente piccola e impotente.
«Quindi preferisci star qui senza dire nulla?» mi interruppe lei smettendo di giocare con i miei capelli.
«Non so cosa dirti...» risposi abbassando lo sguardo dal suo viso, mi sentivo talmente impotente che mi facevo schifo.
«E allora va bene, non dire nulla.» commentò lei subito dopo.
Si alzò dal divano mettendosi in piedi di fronte a me e io la guardai un po' confusa, non capivo quale fosse il suo piano ma poco dopo me lo mostrò. Si piegò col busto verso di me, prese le mie braccia e se le portò sulle spalle.
«Tieniti a me.» mi sussurrò all'orecchio.
Io feci come mi disse, lentamente mi prese in braccio e, probabilmente un po' a fatica, mi portò nella sua camera da letto. Mi fece sdraiare sul materasso, mi misi sul fianco destro, e subito dopo si sdraiò di fronte a me, ma io continuavo a non avere il coraggio di guardarla negli occhi. Affondai la testa nel suo petto e mi tenni stretta a lei col suo profumo che velocemente mi diede alla testa, era così buono. Lei mi strinse a sua volta, mi tenne una mano sulla testa e mi accarezzò per tutto il tempo. Ci stavo così bene tra le sue braccia, mi sentivo protetta e al sicuro ma sapevo che non sarebbe durato a lungo.
«N-non te ne andare, ti prego...» riuscii solo a dirle.
Lei non rispose, mi stampò un semplice bacio sulla testa ed io mi sentii morire. Restammo in quella posizione per tutto il tempo, per tutta la notte. Ci misi molto per addormentarmi, fino all'ultimo sentii le sue mani muoversi lentamente dietro la mia schiena, voleva farmi sentire che c'era, ma fino a quando? Chiunque avrebbe potuto pensare che quello fosse il momento giusto per fare l'amore, quale momento migliore se non prima di un addio? Beh Barbara non era dello stesso parere, lei non credeva che fare l'amore o del semplice sesso fosse necessario o importante, e con quel suo modo di fare lo fece credere anche a me. Non era il momento adatto, non era necessario, e la voglia di fare altro piuttosto che starle vicino in quel modo era nulla. Volevo solo stare tra le sue braccia, non volevo fare altro, ma quella notte passò troppo in fretta ed io dovetti staccarmi da lei.
«Ti accompagno a casa e poi ti porto a scuola.» mi disse quella mattina.
Io annuii semplicemente e senza fare delle inutili storie la seguii nella sua auto. Per tutto il tragitto restammo in silenzio, iniziammo a parlare quando lei si fermò davanti casa mia e io non avevo il coraggio di uscire dalla macchina. In un attimo mi tornò in mente la scena della sera prima, l'ennesimo litigio dei miei genitori e il mio inutile intervento concluso con la mano di mio padre spiaccicata sulla mia faccia. Non sapevo cosa c'era che mi bloccasse tanto, mio padre quasi sicuramente non era in casa, si svegliava sempre presto per andare al lavoro, ma forse ciò che più mi preoccupava era mia madre. Dopo quello schiaffo me ne andai, la lasciai da sola con colui che senza il minimo ritegno la riempiva di schiaffi quasi ogni giorno, quindi era quello che mi bloccò. Provavo vergogna, non volevo presentarmi davanti a lei dopo ciò che avevo fatto, fui egoista, ma in fondo cosa avrei potuto fare?
«Qualsiasi cosa...» sussurrai a me stessa.

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Ehm, salve... Mi scuso per il ritardo con cui è uscito questo capitolo, mi scuso per l'assenza, e già che ci sono mi scuso anche per la piega che prendono le mie storie. Se non finiscono in tragedia non sono mie. 😅 Credevo che mi mancasse un solo capitolo per concludere questa storia ma avevo dimenticato di quanto mi dilungo ogni volta, non so quanto ci vorrà per pubblicare il capitolo successivo ma proverò a farlo uscire il prima possibile, probabilmente quello sarà davvero l'ultimo. Spero vi piaccia. ❤️

Semplicemente lei.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora