Una bottiglia di vodka

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Dicembre

Ivan Drago fece una cosa che non aveva mai fatto in vita sua: entrò in un posto a passo svelto e a testa bassa, cercando di passare inosservato, cosa non facile dati i due metri e tre centimetri di altezza e la possente struttura fisica. Infatti non riuscì nel suo intento: aveva scelto apposta un bar semideserto in una via secondaria di una città straniera, ma, anche se c'era solo una mezza dozzina di avventori, gli occhi di tutti si fissarono su di lui.

Drago attraversò il locale facendo del suo meglio per ignorare i sussurri e piombò a sedere al bancone. Il suo inglese non era perfetto, ma era sufficiente a fargli capire cosa bisbigliassero ai tavoli.

Se sperava che scappare dalla Russia e tornare in America l'avrebbe salvato, si sbagliava di grosso.

- È lui. È quel russo. Drago.

- Non mi meraviglia che non abbia il coraggio di alzare la testa.

- È già tanto che abbia quello di mostrarsi in pubblico, dopo la figura che ha fatto.

- Che vuoi? Avrei voluto vedere te al suo posto. Quel Rocky Balboa...

- Io l'avevo detto dall'inizio che Drago era tutto fumo e niente arrosto, per quante schifezze chimiche gli abbiano messo in corpo quei comunisti.

Drago sentì la collera montare. Arricciò le dita sul bancone, facendo scorrere le unghie sul legno e cercando di dominarsi.

Dopo un'attenta analisi dei propri sentimenti, compiuta nel tragitto dall'albergo al bar – analisi che aveva richiesto un certo tempo, dato che non era abituato all'introspezione – Ivan Drago aveva concluso di essere arrabbiatissimo, deluso e disperato.

E solo.

Subito dopo l'incontro, Koloff, il suo manager si era dimesso. Possibile che si fosse offeso perché Drago aveva cercato di strozzarlo. Drago aveva litigato con Ludmilla, che continuava a rinfacciarglielo, per tutto il tragitto dal centro sportivo a casa. Si erano gridati delle cose orribili da una parte all'altra del loro elegantissimo salotto, dopodiché Drago aveva tirato su la valigia ed era andato dritto all'aeroporto. Aveva preso il primo volo disponibile per espatriare e si era ritrovato di nuovo in America, per la precisione a Boston. Aveva trovato un albergo e ne era riuscito solo per ubriacarsi.

Drago non aveva ancora deciso se gli piaceva Boston. In realtà, non gli interessava. L'unica cosa per cui c'era spazio nella sua mente a parte per la sconfitta, al momento, era che Ludmilla l'aveva lasciato.

Non aveva mai amato lui, chiaramente, aveva amato i suoi soldi e il suo successo. Alla prima sconfitta, aveva perso ogni interesse per Drago. Però Drago l'aveva amata. Aveva amato solo due persone nella sua vita: sua madre e Ludmilla. Sua madre era morta da anni, e Ludmilla l'aveva abbandonato.

Aveva perso tutto: la sua donna, la sua carriera, le uniche cose nella sua vita che avessero mai contato qualcosa.

Ordinò con voce sorda una vodka.

-Lei è Ivan Drago – disse la ragazza dietro il bancone.

Drago alzò lo sguardo, sempre più inviperito. Davanti a lui c'era una ragazzina che doveva avere appena l'età minima per lavorare, alta poco più di un metro e sessanta, con grandi occhi scuri e un sacco di riccioli bruni. Brandiva la vodka in una mano e lo guardava con un misto di timore e curiosità.

-Credevo che fosse tornato in Russia – continuò. – O che fosse ancora a Philadelphia. Cosa ci fa qui?

Non erano affari suoi. Drago tese una mano. Lei gli allungò il bicchiere. Drago le prese la bottiglia, facendola sobbalzare. Strappò il tappo con i denti, lo sputò sul pavimento e ingollò tre lunghi sorsi versandosi la vodka in gola. Si sentì un po' meglio.

- Giornataccia? – domandò la ragazza, che aveva seguito tutta la manovra con lo sguardo.

- Se sai chi sono – grugnì Drago – saprai anche la risposta.

Lei disse: - Ha solo perso un incontro.

-Io. Non. Perdo! – ringhiò Drago, feroce.

Forse per qualcun altro un solo incontro perso non avrebbe significato nulla, ma non per lui. Tutta la Russia aveva scommesso su di lui, gli sponsor avevano fatto a botte per accaparrarselo. E lui aveva deluso tutti. Tradito la patria. Adesso nessuno avrebbe voluto più avere a che fare con lui. Se Ivan Drago non era un pugile, Ivan Drago non era nessuno.

Bevve di nuovo e si prese la testa fra le mani.

-Com'è potuto succedere? – mormorò a se stesso.

Con sua enorme sorpresa e irritazione, la ragazza rispose: – Balboa non ha paura di prenderle.

Drago alzò di nuovo gli occhi. Cominciava ad aver voglia di strozzarla. – Cosa?

-Non ha paura di prenderle – ripeté lei. Pareva combattuta tra il terrore di quello che lui le avrebbe fatto, se non fosse stata zitta, e un bisogno deleterio di continuare a parlare. – Lei non se l'aspettava. È stato l'effetto sorpresa, più che altro.

Drago la fissò incredulo. – Hai seguito l'incontro?

- Ho seguito tutti i suoi incontri – dichiarò lei.

- Tu segui il pugilato? -. Drago era sempre più confuso. La ragazza non aveva affatto l'aria di un'appassionata di boxe.

Perciò pensò di essere ormai ubriaco quando la sentì rispondere: - Io sono una pugile.

Drago scosse lentamente la testa, disgustato. Ma come si permetteva? Lui era un pugile. Non lei. Nemmeno in un milione di anni. Tanto per cominciare, era una ragazzina. Drago era al corrente dell'esistenza della boxe femminile, ma era una novità che si stava affermando solo da qualche anno, e che lo lasciava indifferente se non lievemente sospettoso. E quella ragazzina era così...Piccola. Magra. Drago avrebbe potuto ucciderla con uno schiaffo.

Pagò e uscì dal locale.

Una volta fuori, scoprì di essere troppo ubriaco per ricordarsi la strada fino all'albergo. Si appoggiò al muro, aspettando che la nebbia davanti ai suoi occhi sparisse.

Era molto tardi. Gli avventori uscirono uno dopo l'altro evitando di guardarlo in faccia. Per ultima, uscì la ragazza. Chiuse la porta a chiave, tirò giù la serranda (dovette alzarsi sulle punte dei piedi. Drago avrebbe potuto aiutarla, ma non si mosse), e rivolse un sorriso a Drago, che lui non ricambiò, prima di svoltare l'angolo.

Drago si ritrovò a fissare il punto in cui era scomparsa. Più ci pensava, più si sentiva infuriato. Un pugile! Quella ragazzina che non doveva pesare sessanta chili neanche bagnata! Una comune cameriera americana! Come si permetteva di definirsi pugile? Era un insulto ai veri atleti, quelli com'era stato lui.

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