29.

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Grace's POV

Dondolo lentamente mentre continuo ad abbracciarmi le ginocchia. Singhiozzo tremando, la gola mi brucia terribilmente, gli occhi sono gonfi e appannati da lacrime bastarde che non ne vogliono sapere di smetterla di scendere. Un dolore estenuante al petto continua a pugnalarmi instancabile. Traggo dei respiri profondi cercando di calmarmi.
Ma scoppio a piangere nuovamente quando ripenso alla sua camera vuota, se n'è andata, mi ha abbandonato anche lei, dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo tutti questi sforzi per avere una famiglia al limite del normale. Ho provato, ci ho provato veramente, per così tanti anni, avere una famiglia come le altre, una famiglia che ti facesse sorridere al pensiero, non piangere come una fottuta bambina.
Mia mamma, la mia mamma, nemmeno lei è riuscita a volermi abbastanza bene, non sono abbastanza importante per restare, non sono mai stata abbastanza. Eppure credevo che ci saremo riusciti, io, Ashton e nostra madre. Dopo tutta questa merda ci saremo trasferiti lontani, magari in Canada.
Ashton, anche lui è ancora su quel maledetto letto d'ospedale, a questo punto sarebbe meglio per lui lasciarsi andare. Sbatto violentemente la testa contro il muro, un dolore acuto si espande dietro la nuca. Cosa cazzo penso, cosa cazzo vado a pensare? Ashton deve continuare a lottare. Per noi.

Guardo fuori dalla finestra, è buio. Il mio telefono ha smesso di squillare appena una mezz'ora fa. Scuoto la testa portando i capelli biondi davanti gli occhi, usandoli come un patetico scudo. Ecco cosa sono, patetica. Una bambina che per anni ha cercato l'approvazione di qualcuno che non ci ha pensato più di due secondi a lasciarmi senza niente. Sbatto le mani sul pavimento, le sbatto ancora e ancora finchè non sento qualcosa di vischioso scorrere lungo le braccia e non sento urlare la donna che vive sotto di me. Caccio un urlo rauco, basso mentre altre lacrime scorrono incontrollate. Non è giusto, io non me lo merito, non me lo merito, tutta questa merda io non me la merito. Gli occhi si fanno pesanti mentre il mio petto continua a venire sconquassato da deboli singhiozzi che sembrano volermi spaccare la gabbia toracica.
Io non me lo merito, ma alla vita non frega un cazzo se te lo meriti o no. Ridacchio dolorante, non mi merito proprio un cazzo. Ho bisogno di qualcuno.

Apro lentamente gli occhi, un suono assordante, continuo che mi trapana le orecchie.
<Basta, sta zitto.> Mugugno stiracchiando le braccia sopra la testa. Fanculo. Sono nella stessa esatta posizione di ieri notte. Agguanto maldestramente il cellulare che si muove leggermente sul pavimento, vibrando e illuminandosi continuamente. Con gli occhi ancora impastati di sonno clicco il pulsante verde e accendo il viva voce.
<Che cazzo volete?>
Sento qualcuno schiarirsi la voce, un uomo forse. Aggrotto le sopracciglia. Numero sconosciuto, ma che diamine.
<Signora Knight?> Una bella voce, profonda anche se fredda,
<Con chi parlo?>
<Sono il dottor Woods, seguo suo fratello da un paio di mesi.> Spalanco gli occhi portandomi una mano alla bocca per non urlare.
<è successo qualcosa? Sta bene? Ashton sta, sta bene vero?> La voce mi trema e so che le prossime cose che sentirò potrebbero distruggermi o salvarmi.
<Volevo parlare delle condizioni di Ashton ieri sera, ma non rispondeva nessuno al cellulare. Suo fratello sta bene non si preoccupi, in effetti sta più che bene, si è svegliato e tra meno di sei ore potrebbe essere rilasciato.> Un peso enorme si solleva dal mio petto crollo sulle ginocchia iniziando a piangere, non so fare altro ultimamente.
<Vengo subito, quindici minuti e sono lì. Mi aspetti, arrivo, o mio dio arrivo.> Lo sento ridacchiare, ma forse me lo sono immaginato perché la sua voce è più fredda di prima.
<Dove vuole che vada. Venga presto.> E riattacca.

Non ci posso credere, mi alzo così velocemente che per pochi secondi vedo nero, barcollo correndo verso la porta. Mi butto giù dalle scale saltando due, tre gradini alla volta. Un sorriso sincero, mi si appiccica sulla faccia mentre corro verso la metropolitana. Il sole sta sorgendo, le strade sono quasi desolate mentre la città incomincia a prendere vita. Salto agilmente il controllo ignorando le urla del controllore che neanche mi insegue, corro verso il treno della linea rossa e quasi impazzisco quando lo vedo partire. No, no corro più veloce saltando sul gradino con le porte chiuse. Le persone dentro al vagone mi guardano basite e io non riesco a trattenere un urlo di gioia. Un signore si avvicina alle porte e mi aiuta a forzarle, dal megafono parte una raffica di insulti da parte del conducente, quando le porte si staccano abbastanza da farmi entrare casco in avanti sul pavimento azzurro.

JUDGE MEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora