XXIII

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Nove ore.

Henry è chiuso in quella maledetta stanza da oramai nove ore filate e nessuno vuole dirmi qualcosa di rassicurante. Non so, ma a questo punto preferirei una bugia alla realtà. Basta che mi faccia stare meglio.

Non so cosa mi aspettavo da Henry, a dirla tutta. Ora ho tempo di fermarmi a riflettere seriamente sulle mie stesse scelte. Non avrei mai saputo prevedere come mio fratello avrebbe reagito a una simile notizia, anche perché, nei miei quindici anni, mi ha sempre voluto proteggere. Non so se è stata la sorpresa o il fatto che gliel'ho tenuto per così tanto nascosto a farlo scattare. La colpa è mia. Non mi sarei aspettato da una persona seria come Henry una scenata del genere, se questo è il termine corretto. Fantasticavo di portare a casa Logan una domenica per pranzare insieme. Immaginavo loro due guardarsi con astio e disagio reciproco mentre io avrei sempre tentato di mandare avanti la conversazione, ma alla fine sarebbero stati felici.

Ho sempre immaginato varie scene. Ma alla fine realtà e supposizione sono due cose diverse. Molto. E tutto è andato a puttane per colpa della mia fantasia.

Vado quattro o cinque volte, minimo, dall'infermiera addetta alla reception a chiederle se posso andare a vedere mio fratello e lei, ogni singola volta, controlla il computer e scuote la testa. Eleanore è andata dall'inserviente che entra e esce, ogni singola ora, dalla camera blindata di mio fratello, chiedendogli informazioni.

«Sono sua moglie.»

Nemmeno con questa scusa fasulla è riuscita a farsi dire qualcosa.

È il terzo caffè che bevo e ho i nervi a fior di pelle. Credo che io mi sia assopito un paio d'ore in sala d'attesa, perché quando ho aperto gli occhi avevo la testa posata sulla spalla di Nora, la quale era immobile a stringere la sua borsetta marrone. In tutto questo tempo non mi è mai passata di mente l'idea di tornarmene a casa e lasciare Henry da solo.

A quanto pare ha avuto un attacco cardiaco.

Ed è colpa mia.

Ha avuto una brutta fibrillazione ventricolare, hanno dovuto usare il defibrillatore un paio di volte e iniettarli vari antiaggreganti e trombolitici. Hanno chiuso la stanza per lasciare che si riprendesse. Quella è stata l'unica volta che ho potuto parlare con un vero medico faccia a faccia.

«Tra un paio di ore potrà vederlo» aveva detto.

Sono passate diciotto ore e di Henry nessuna traccia.

«Vuoi che ti porti a casa, Reggi? Rimango io qui con lui.» Nora mi tende un braccio, ma io scuoto la testa deciso. Io rimango. «Hai bisogno di riposo. Domani hai scuola e...»

«Io rimango. Chiudi il becco.»

Non sono mai stato così scorbutico con lei, ma almeno le faccio chiudere la bocca una volta per tutte. Non ho voglia di parlare con lei per cercare una soluzione: Henry è quasi morto, punto. Non c'è niente da parlare.

Logan mi guarda assonnato. Forse vuole andare a dormire a casa, ma non vuole dirlo. Si vergogna, evidentemente. I suoi occhi si chiudono e si riaprono sempre più a fatica. Non lo biasimo. Mi è rimasto accanto, seduto per ore sulla stessa sedia senza dire niente. In questo momento non so cosa vorrei di preciso.

Si alza e prova a toccarmi. Mi scosto, facendo una smorfia di disgusto che subito cerco di mascherare. Se ne accorge. Mi guarda. Si sposta. Scuote la testa. Non mi interessa.

Vado a farmi un giro per distrarmi. Qui all'ospedale Northwestern Memorial è tutto bianco e puzzolente. Le pareti sono bianche. Il soffitto è bianco. Il pavimento è di una tonalità di grigio chiarissimo. E puzza. Puzza di morte.

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