VALE.

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Valerio's pov.

Emanuele è morto. Questo pomeriggio, hanno dichiarato il decesso alle diciotto e cinquanta. Ho il cuore stretto in un pugno e vorrei essere morto insieme a lui. Ma morire non è una la soluzione per rimediare ai tuoi problemi e lo sai perché? Il tuo dolore che non porti nella tomba lo scarichi su qualcun altro. Non ho informato Niccolò. Gli ho solo chiesto di farsi accompagnare qui. Non posso dirglielo per telefono. Siamo soli, io e Ludovica. Lea e suo marito sono stati informati e stanno arrivando mentre il silenzio congela tutto quanto. Oramai non importa più, non ha più senso cercare di farmi carico di questo peso e come un biscotto a contatto con il latte, mi sciolgo in un pianto silenzioso. Sto tremando. Il caschetto scuro è immerso in quel suo abito turchese mentre gli sta accasciato sul petto. Non era così che aveva progettato che andassero le cose. Le anziane signore sono zitte nella stanza, non spettegolano più delle loro esperienze di vita e si limitano a guardarci con aria sconsolata senza dire una parola. Ha smesso di piovere, come se l'appassire di Emanuele avesse portato via tutto il dolore del cielo. Me lo immagino qui, in questa stanza, a guardarci mentre cerchiamo di lasciarlo andare. Percepisco un brivido attraversarmi lo sterno e scendere verso lo stomaco. E quando giunge ai fianchi si scioglie. È finalmente sereno. La sua pelle inizia a mutare da un rosa tenue ad un bianco pallido e privo di anima mentre gli occhi sono chiusi e lo fanno sembrare addormentato. Le mani e le braccia gli scorrono accanto alle gambe e sono ferme, composte, il perfetto contrario di quando ancora c'era. Tanto irrequieto e scalmanato che meglio di così non lo si può descrivere. È diventato di cera. Una cera poco fedele a lui e che non lo ricorda per niente. Ingoio un altro singhiozzo e metto la mia faccia tra le mani. Mi sento come un bambino che si perde al supermercato e che non riesce a trovare la mamma. Ludovica si solleva dal suo petto e mi guarda con gli occhi gonfi ed arrossati lungo i contorni. La punta del suo naso è rosea mentre il trucco è andato a farsi fottere. « Non guardarmi così. »
« Come ti guardo? »
« Con compassione » tira su col naso.
« Non ti guardo in alcun modo. Sono come te adesso » rispondo.
« No Valerio. Tu non sei come me. » La guardo e sto zitto.

Niccolò's pov.

Giacevo a terra accanto alla stufa dopo che quell'orco aveva consumato attingendo dal mio corpo. Era soddisfatto delle sue azioni e se ne stava in panciolle sul divano ancora nudo mentre fumava un sigaro dal profumo fastidioso di liquirizia. Mi aveva lasciato spoglio dei miei vestiti come se fossi un oggetto da gettare via dopo l'uso. Come se dopo essersi svuotato dentro di me io non fossi più una persona, ma un semplice burattino di spugna. Non mi aveva più rivolto la parola dopo la brutalità e nella mia testa non c'era spazio neppure per pensare a cosa sarebbe successo dopo. Per me il futuro aveva smesso di esistere. Era viva soltanto l'idea del presente. Ero dolorante e potevo scorgere sulle mia braccia distese in avanti i segni della violenza. Dei lividi violacei e scuri come i suoi occhi. Il professor Costa aveva due pozze di catrame al posto delle pupille, così nere tanto quanto lo è il suo cuore. Non ho mai avuto il coraggio di denunciarlo. La casa era silenziosa adesso. Nessun urlo, nessun ticchettio dell'orologio. Una piattezza rigorosamente categorica. La cucina era ancora al buio mentre il resto del salotto e della stanza da pranzo erano poco illuminati da quel fuoco caldo e tenue. Vedevo il tavolo scuro ed interamente di vetro contornato da almeno cinque sedie bianche in pelle e ben tenute. Il parquet di legno profumato e scuro era la distesa più grande che potevo guardare spingersi sin dentro le altre stanze. I mobili erano anch'essi legnosi ed in tinta con le pareti della casa di color tortora. Poi a fare da ingombro, la figura di una vetrinetta in vetro avvolta da un legno bianco e ben lavorato. « Faresti meglio a vestirti. » Non gli risposi. Continuai a guardare diritto davanti a me. « Non mi hai sentito? » si voltò a guardarmi. Lo sentivo muovere i suoi occhi lungo tutto il perimetro della mia pelle scoperta e per porre fine a questa agonia, mi coprii con la felpa. Mi infilai anche le mutande ed i pantaloni per poi, quando fui pronto, aspettare che si rivestisse per accompagnarmi. Aveva insistito tanto e mi aveva anche minacciato. Si era preso la briga di assicurarmi che se ne avessi fatta parola con qualcuno avrebbe fatto del male a Valerio o nei casi più disperati, a mia madre. Fece in modo di non destare sospetti e perciò quando poté, mi caricò in macchina e mi portò al policlinico. Valerio mi aveva chiesto di farmi accompagnare qui. Non dissi nulla per tutto il tragitto perché non volevo neppure incontrare i ragazzi quel giorno. Volevo soltanto vomitare tutto, ma al contempo era come se avessi un blocco e non fossi capace di fare o dire qualcosa. Arrivammo all'ospedale e prima di farmi scendere serrò le portiere. Lo fece per ricordarmi cosa non dovevo fare se volevo il bene di chi mi stava intorno. Gli ho permesso di annientarmi, di alimentare le mie insicurezze e di impormi altri limiti oltre a quelli che avevo già. Era come se avessi riparato una crepa sul muro e in contemporanea se ne fossero formate altre pronte a raderlo al pavimento. Più cercavo di sistemare, più causavo distruzione. « Buona giornata » mi sorrise come se nulla fosse accaduto. Sfrecciai fuori da quell'auto con la velocità di un felino e scappai il più lontano possibile da lui. Il solo pensiero che lo avrei rivisto a scuola mi causava un forte dolore di stomaco che era maggiore di intensità rispetto a quello causato dai lividi. Mi chiedevo come avrei fatto a nasconderli ma non era tra le mie priorità in quei momenti. Salii nella stanza di Emanuele e nell'imboccare quel solito corridoio che era diventato un fedele compagno durante la settimana, mi invase di nuovo il silenzio tombale a cui non mi ero ancora abituato. Era vuoto ed asettico. Conteneva il dolore e lo sapeva fare bene, in una maniera tanto impeccabile che neppure l'uomo più insensibile al mondo avrebbe saputo farlo. Mentre camminavo vidi Valerio sbucare infondo e guardarmi immobile. Come se io fossi Medusa e lui un povero sventurato capitatole tra le mani. Non realizzai. Nel momento in cui gli fui abbastanza vicino, fu in quel preciso istante che capii. Gli vidi gli occhi scuri, impietriti e gonfi per le lacrime che stava cercando di trattenere. Mi venne vicino ed io gli passai davanti senza neppure sfiorarlo di un millimetro. Avevo il cappuccio della felpa piegato su se stesso, le maniche lunghe a coprirmi le braccia e la parte estrema che si muoveva insieme alle mie gambe durante i passi. « Nic » mi disse con la voce tremante. Quando fui dentro la stanza trovai Lea e Riccardo riversi sul letto. Non era necessario neanche che scorgessi la sua sagoma per capire che non era riuscito a superare il pomeriggio. Sentivo le mani e la testa fremere come se per un attimo mi fosse mancato il pavimento da sotto le scarpe. Ludovica mi vide ma non si avvicinò.

Mi avviai verso il suo corpo vuoto, silenzioso e pesante. Trassi indietro le labbra ed ingoiai un urlo di rabbia e di tristezza. Stava lì, fermo e con gli occhi chiusi, le labbra pallide perfettamente allineate e le mani sul petto. Emanuele era morto ed io non ero con lui.
« Mi dispiace. » Lea e Riccardo si voltarono verso di me. « Mi dispiace Emanuele. » Valerio rientrò e si avvicinò ma io non volevo che mi toccasse. Non doveva più toccarmi nessuno. « Mi dispiace » il mio tono di voce cominciò ad alzarsi e quando gli fui accanto cedetti. Mi accasciai, accanto a lui. Nessuna parola di conforto. Ero stato un pessimo amico e l'avevo trascurato. Per cosa poi?
« Mi dispiace Emanuele, scusami » singhiozzai così forte che chiunque nel corridoio non volesse sentirlo, lo sentì. L'addome era contratto come se mi stessi auto-digerendo. Scossi il suo corpo. Non volevo che andasse così ed avevo sperato, tanto, con tutte le mie forze. Ma aveva vinto la morte. Sua madre e suo padre cercarono di stringermi a loro ma li respinsi. Era morto e basta, dovevo accettarlo. Ma io irascibile non riuscivo. « Ti prego, torna qui » gli dissi stringendolo. Il suo silenzio. Era questo mi uccise. « Signori » si intromise un medico. Non lo guardai neppure. Percepivo soltanto il suo malessere nell'osservarci. Se ne stava dietro di me e sapevo cosa doveva fare. Doveva strapparmelo dalle  braccia per portarlo in obitorio prima della sepoltura. « Devo prelevare il corpo. » Non mi voltai perché non era importante cosa dovesse fare. Tanto più lo era invece che lo potessi toccare un'ultima volta prima di vedere intorno a me sparire ogni sua traccia. La gente se ne sarebbe dimenticata ed era impensabile che gli si potesse dire addio così facilmente. C'eravamo sempre stati l'uno per l'altro. Sempre. Lui era e rimarrà sempre la mia anima gemella. Quella persona che soltanto da uno sguardo era in grado di capire la qualunque mi passasse per la mente. Rimarrà sempre l'amico ed il fratello più fedele che avessi mai potuto chiedere alla vita. Non importa dove si trovi adesso, io e lui saremo sempre legati e sono certo che vegli su di me costantemente. « Signori, vi prego. »
« Se potesse darci anche solo un altro paio di minuti » rispose Lea guardando verso me. « Non posso signora, mi dispiace. Sono obbligato dalle procedure. » Lo guardai in cagnesco. Non ero più in me. Si avvicinò cercando di trascinare il letto con le ruote verso l'uscita ed io mi aggrappai stringendolo forte. « La prego, non può. »
« Mi dispiace. » Non volevo mollare. Non avrei mai voluto. « Signora, la prego » si voltò a guardare Lea.
« Mi dispiace » scossi il suo corpo come se potessi disturbarlo dal sonno di morte. Valerio si avvicinò e mi strinse tirandomi dall'addome. Fu così forte la sua presa che abbandonai le sbarre metalliche del letto che iniziò ad allontanarsi dalla camera. « Mi dispiace Emanuele. Perdonami! » urlai scalciando e cercando di liberarmi da quella presa. « Ti prego Niccolò, sta' calmo. »
« Lasciami andare! » gridai « Lasciami andare con lui, ti prego. »Lo sentivo singhiozzare ma non ero in grado di potermene prendere cura. Ci accasciammo a terra e mi strinse tra le sue gambe. « Lasciami andare » dissi piano soffocato da un enorme groppo in gola. Poggiai la mia testa sulla sua spalla mentre il suo mento si poggiava su di me da dietro. Era umido. Aveva pianto anche lui e con noi, tutta la stanza. Adesso era vuota. Non c'era più quel letto ingombrante e nessuna flebo. Era andato perso per sempre. Era un'andata senza alcun ritorno la sua ed ero io ad aver preso il treno. Ludovica si sedette accanto a noi e mi strinse la mano. È questo il ricordo che ho di quel giorno. E non mi perdonerò mai per non esserci stato, neanche per tutto l'oro del mondo.

SO BADARE A ME STESSODove le storie prendono vita. Scoprilo ora