ANXIAE CURAE.

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Valerio's pov.

Le mie mani sono ancora sporche di sangue mentre quella musichetta fastidiosa che risuona in tutto il parco continua a passarmi da un'orecchio all'altro. Niccolò è agitato mentre parla al telefono e quando  riaggancia, mi guarda senza dire una parola. Poi  mi spiega che i soccorsi tarderanno di almeno una decina di minuti prima di arrivare da noi a causa di un altro incidente in cui si sono schiantate tre macchine. Tengo Emanuele sulle mie gambe per evitare che soffochi col suo stesse sangue. Ludovica continua nel mentre a farneticare cose di fretta senza riflettere un secondo. Gli stringe la mano e gli accarezza la fronte fredda. È sudato. Delle chiazze violacee gli nascono lungo il collo e la faccia.
« Dobbiamo fare qualcosa » mi urla Ludovica.
« Qualcuno ci aiuti, non state lì impalati! »
« Non c'è un medico tra di voi? » chiede Niccolò. Una ragazza viene verso di noi ed io la guardo tremante mentre serro la mascella.
« So che suona avventato, ma posso accompagnarvi io al pronto soccorso. Non avete molto tempo. » Do un veloce sguardo al caschetto scombinato che mi guarda con il sangue sulle maniche della giacca, poi mi volto verso Niccolo che annuisce.
« D'accordo sì. Ludovica, tu vai con lei, io e lui » affermo indicandolo con un cenno del capo « Vi raggiungiamo in vespa. »
Carico Emanuele in braccio e lo porto con me mentre le sue braccia penzolano lungo le mie gambe e la sua testa sta reclinata indietro. Sta guardando Niccolò che si rifiuta di vederlo in queste condizioni.
« Mettilo qui. Stendili sulle mie gambe » mi dice Ludovica stringendolo a sé, come se fosse un bimbo. Io il mio l'ho lasciato solo a guardare il suo migliore amico morente tra le mie braccia. « Chiamo sua madre » le dico prima di chiudere la portiera che riflette le luci delle attrazioni ancora in movimento. Lei annuisce. Mi lascio l'auto alle spalle e mi dirigo con gli occhi gonfi verso Niccolò.
« Andiamo » gli dico afferrandolo per un braccio e portandolo fino alla vespa. Prendo il casco mentre sto voltato di spalle, lo tocco e penso che il mio ego è così alto che se lo dovrà mettere da solo. Non ho spazio per il romanticismo in questo momento.
« Mettitelo, sbrigati » glielo do e mi guarda assente. « Cosa stai aspettando? » chiedo iniziando a mettermi il mio battendo la luce in velocità. « N-non so metterlo, siamo troppo di fretta » dice con la voce strozzata asciugandosi una lacrima con la manica della felpa. Sospiro e lo aiuto. « Non riesci a salire neppure? » Non risponde.  Mi guarda soltanto con disprezzo e sale sulla vespa stringendosi a me come se fosse diventata una cosa di poca importanza. Parto e sono così preso dai miei pensieri che non mi accorgo neppure di aver spostato il sangue dalle mie mani sul volante. D'altronde è l'unica cosa che conta di meno, per questo non ci ho pensato. Il buio intorno a noi, che adesso è interrotto dai fari del motociclo, sembra volerci inghiottire con tanta, forse troppa falsa benevolenza. Ho sempre odiato il buio perché credo che rappresenti il vuoto e tutto ciò di incompiuto per me è paragonabile al buio. Ma non quel buio che ti sommerge nella tua stanza quando spegni la luce. Io intendo il buio di quando una speranza luminosa smette di brillare. Provoca una così grande oscurità che perdi la vista e ti concentri soltanto su ciò che vorresti vedere. E soffri, piangi e diventi diffidente. Il borbottio della marmitta della vespa viaggia nel vento insieme al calore della mia pelle ed io mi sento come se stessi cercando di acchiappare il fumo con le mani. Non serve neppure che chieda dove lo stanno portando. Sono più che certo che si stiano dirigendo al policlinico Gemelli.
« Se riesci, chiama Lea e dille di raggiungerci » gli dico urlando e cercando di battere il vento che mi ferisce la faccia. Ho le labbra secche. Vedo che cerca di afferrare qualcosa dalla tasca e quando ci riesce digita il numero e avvia la chiamata. « Dove stiamo andando? »
« Credo Policlinico Gemelli. » Le sue mani sono ancora attorno al mio bacino e lo stringono con poca voglia. Vuole lasciarsi andare ma io non glielo permetterò. Non lo farò perché sono egoista e voglio che una parte di Niccolò brami per me. Ho bisogno che lui si stringa al mio petto scusandosi con la sua parlantina veloce che lo frega sempre quando vuole farsi perdonare. Ho bisogno di sentirlo, di sentire che sono una persona speciale e che non può sostenere il peso del mio broncio. È questo che una persona ingarbugliata come me vuole sentirsi dire. Sono le dimostrazioni quelle che vuole e non si ferma se non le ha. Una persona come me brilla di tracotanza e superbia. Ed io finisco sempre per cacciarmi in qualche pasticcio o in qualche situazione che mi fa sentire piccolo. Ed è così.
« Stanno arrivando » mi urla vicino all'orecchio coperto dal casco ed io non gli rispondo. Continuiamo a scorrazzare tra il traffico di luci rosse e gialle mentre il luna park si fa sempre più piccolo in lontananza e le sue luci violacee diventano sbiadite. Il sangue riverso sul manubrio mi fa sembrare un assassino in fuga dal suo delitto e per poco non sbando all'idea.

SO BADARE A ME STESSODove le storie prendono vita. Scoprilo ora