AMICUM AGMEN.

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Niccolò's pov.

Mi svegliai con le prime luci dell'alba che penetravano dalla finestra e che mi ferivano gli occhi ancora impastati di sonno. Erano le cinque e mezza del mattino. Mi voltai da una parte all'altra del letto e sbadigliai. Ero ancora troppo stanco per potermi alzare ma allo stesso tempo non riuscivo a riaddormentarmi. Tenni il braccio sotto il cuscino e la testa poggiataci sopra, guardai il cielo diventare chiaro sempre di più fino ad assumere una colorazione che andò dall'arancione al giallo ed ascoltai gli uccelli cinguettare. Non passarono molte macchine in quell'istante, dunque che Roma dovesse ancora svegliarsi del tutto era chiaro. Neppure io sono un tipo mattiniero. Preferisco poltrire piuttosto che essere masochista con me stesso ed abbandonare le lenzuola. Mi misi a sedere, scostai un po' la tenda, sempre rimanendo tra le coperte e mi godetti l'inizio di un nuovo caotico giorno. Fu bellissimo. Lo specchio di fronte a me lasciò intravedere la mia sagoma ancora sfocata per via della poca luce. Avevo i capelli scombinati e il corpo semi nudo, coperto dalla vita in giù da quelle lenzuola fresche e azzurre. Dopo neppure dieci minuti potei sentire i passi di mia madre per casa. Aveva iniziato la sua giornata, la stessa e identica routine di ogni giorno. Anche a me era già passata la voglia di dormire così poggiai i piedi sul pavimento freddo e andai verso la porta della camera. L'avevo chiusa a chiave ma ancora privo di forze e della facoltà di ricordare, non capii il perché non riuscissi ad aprirla. Continuai a barcollare verso la cucina, scostai le tende e la luce tenera del mattino invase la stanza. Mia madre stava in bagno, ma ero sicuro che mi avesse sentito. Nel frattempo mi spostai anche in salotto e feci la stessa cosa finendo poi per sdraiarmi sul divano. Il mattino presto ha del malinconico ogni qualvolta io provi ad affrontarlo e finisco sempre per deprimermi fissando un angolino della casa.
« Sei già stanco? » domandò una voce flebile da dietro il tavolo ed io sollevai la testa.
« Sì » mi aprii in un grande sbadiglio.
« Se avessi la tua vitalità sareste tutti fregati. »
« Hai ragione. »
« Vuoi il tuo solito? »
« Eh? » mi accigliai.
« Mocaccino freddo. »
« Sì, sai come si fa? »
« Ho imparato da te. » alzò le spalle.
Il sole era ormai completamente sorto e stava già iniziando a scaldare tutto, fin troppo. Di quel passo saremmo arrivati alle nove del mattino con ventotto gradi. Queste erano le giornate estive a Roma, iniziavano tutte allo stesso modo ma terminavano ogni volta in maniera totalmente inaspettata. Credo che fosse questo il bello di vivere lì. Dall'altra parte della stanza si sentì il ghiaccio battere contro la parete del frullatore, il latte raggiungerlo e il caffè tuffarcisi in un connubio vanigliato. Dopo neanche due secondi scarsi le lame vennero messe in moto generando un rumore che in quel momento mi risultò essere infernale. La mia pelle iniziò ad essere un po' più umida del solito, segno che stessi iniziando a percepire il calore e a sudare. Mi alzai, passai una mano sulla faccia ancora assonnata e sicuramente pallida, andai in bagno, aprii il rubinetto dell'acqua indirizzando la valvola verso il freddo e mi sciacquai. Dopo attraversai per l'ennesima volta il corridoio e mi ritrovai in sala da pranzo. Qui la tazza sprezzante dell'odore forte del caffè mi attendeva sul tavolo. Presi posto.
« Ecco a te » mia madre mi diede un bacio.
« Grazie. »
Controllai le notifiche del telefono e iniziai a sorseggiare la bevanda fresca. Avevo tredici messaggi non letti da parte di Emanuele che non aveva fatto altro che rompere anche in lingue che non credevo conoscesse ed una richiesta di Instagram da parte di Valerio. Accettai senza esitare e mi passai una mano tra i capelli troppo nodosi e troppo in disordine per appartenermi. Scorsi un po' per il feed. Troppe foto inutili di gente che aveva iniziato le sue vacanze: chi al mare, chi in piscina in qualche costoso hotel e chi perfino in crociera.
« Devo parlarti » mi interruppe mia madre poggiandomi una mano sulla spalla.
La guardai mentre colsi un sorso e annuii.
« Dimmi pure. »
« Devo sedermi, potremmo metterci un po'. » spostò la sedia e si accomodò.
La guardai con aria interrogativa in attesa che iniziasse a parlare, mentre l'unico suono percettibile era tornato ad essere quello degli uccelli e delle macchine di passaggio.
« Si tratta di tuo padre. »
« Ovvero? »
« Ho la certezza che abbia un'altra. »
La guardai serio.
« Mamma ma che dici? »
« Sono andata un po' a fondo prima di parlartene. Ne sono convinta. »
« E come mai lo dici solo a me? »
« Ho pensato di dirlo anche a Marta, ma non ne ho ancora avuta l'occasione, purtroppo. »
« Cosa vuoi fare? »
« Non lo so Niccolò » disse passandosi una mano tra i capelli.
« Vuoi che faccia qualcosa io? »
« No, tu devi starne fuori. »
« Sai che è impossibile. »
« Lo so perfettamente, ma devi starne fuori. »
« Io... » cercai di formulare una frase ma lei mi bloccò prontamente con le sue parole.
« Te l'ho detto solo perché non volevo che lo scoprissi da qualcuno che non fossi io. Ti avrebbe fatto più male. »
« Mamma, avrebbe fatto male comunque. »
Ci guardammo negli occhi e dopo ci congiungemmo in un abbraccio lungo e silenzioso. Sentivo il suo respiro agitato sulle mie spalle e il suo corpo rigido tra le mani.
« Voglio divorziare. »
« Non ti dirò che mi dispiace. Ha sbagliato e merita tutto quanto, anche di non vederci mai più. E non so nemmeno se lo perdonerò mai. È giusto che te lo dica. »
In quel preciso istante potei sentire il vuoto accrescersi da dietro le costole ed espandersi dallo sterno allo stomaco. Stentavo a crederci. Non credevo di potermi contenere e giuro che sarei voluto andare fino alla sua stanza, avrei voluto prendere un cuscino e con tutta la forza che sarei riuscito a tirare fuori l'avrei soffocato ed avrei gustato il piacere di vedere i suoi polmoni desiderare l'ossigeno avidamente.
« Non so che fare o dire » la guardai e le accarezzai la guancia destra con il pollice.
« Va bene così tesoro. Va tutto bene. »
Fu la mattinata più silenziosa che avessi mai affrontato mentre a fare rumore rimasero soltanto i miei pensieri caotici e affollati che spingevano spigolosi l'uno contro l'altro. Non gli andavamo più bene o semplicemente eravamo stati un dettaglio che aveva sbadatamente tralasciato? Non aveva più importanza ormai.
« Non ti preoccupare per me mamma, mi passerà. Non ti prender pena. »
« So che sei forte. »
Mi alzai e mi diressi nella mia stanza, ma prima che potessi svoltare verso il corridoio mia madre mi disse un'ultima cosa: « Mi raccomando. Non t'ho detto nulla. »
« D'accordo. »
Ogni centimetro della mia pelle sembrò iniziare ad ardere e a ribollire. Ero furioso sia con mio padre, stupido verme schifoso, che con il resto del mondo.
« Al diavolo » biascicai chiudendomi la porta alle spalle in un tonfo piatto.
Mi accovacciai sul letto e strinsi forte le lenzuola in un pugno. Nel frattempo soffocai con il cuscino un urlo che si sarebbe di certo udito a chilometri di distanza da casa mia. Niente lacrime. Non ne ho spesa nemmeno una per lui. Mi sdraiai a guardare il soffitto asettico e bianco, troppo bianco. Riavvolsi un nastro nella mia mente, chiusi gli occhi ed in questo preciso istante lo feci partire proiettando nella mia mente tutti i momenti felici. Mi accorsi di non poter carcerare mio padre da molti di quelli purtroppo, anche se avrei voluto farlo volentieri. Mi vidi al parco ad otto anni quando mi aiutò ad andare in bici senza le rotelle, poi quando andai al cinema per la prima volta a nove con mamma e papà ed ancora a dieci anni nel momento in cui mamma ci scattò una foto su una giostra a Verona. I pezzi che mi tornarono in mente furono molti di più rispetto a quelli di cui effettivamente io vi stia parlando. La mia famiglia era dovunque. Finii per addormentarmi e mi destai dal sonno soltanto verso l'ora di pranzo. Mi stropicciai gli occhi con le mani e mi alzai. La porta era già aperta. Qualcuno, probabilmente mia madre, l'aveva  spalancata per indicarmi che il pranzo fosse pronto. Guardai l'ora ed erano le tredici e quindici minuti. Non avevo mai dormito così tanto. Camminai verso la cucina quasi trascinandomi e quando vi arrivai un buon profumo stuzzicò le mie narici. Fissai tutti i presenti. Non fui più neanche sicuro di voler partire per Londra e lasciarla con quello sporco traditore.
« Siediti, che aspetti? » mi domandò.
« Arrivo » risposi.
Per lui fu come se non fosse successo nulla e non aveva neppure l'aria di chi sapeva di essere colpevole. Continuava con molta nonchalance a scherzare con mia madre come era sua consuetudine fare. Sentivo che non avrei retto a lungo quel teatrino ma nonostante ciò decisi che era meglio restare e rispettare le decisioni di mamma. Se mi fossi congedato avrei destato dei sospetti e preferii starmene fermo al mio posto.
« Quando partirete? » domandò curioso.
Lo guardai e, ingoiando tutte le brutte parole che avrei voluto sputargli addosso acidamente, risposi: « La prossima settimana. »
« Non è ancora sicuro? » alzò un sopracciglio.
« I genitori di Emanuele hanno un'agenzia viaggi. »
« Non fa alcuna differenza, dovreste sbrigarvi. »
Mia madre mi guardava mentre ingurgitava la carne alla griglia che aveva preparato e che continuava a fumare nel mio piatto ancora intatto. Io non risposi. Lui Mi guardò sprezzante e non mi disse nulla. Capì da solo che fosse meglio per lui che ci mettesse una pietra sopra nonostante la questione della sera prima non fosse del tutto superata. Abbandonai il tavolo e in preda alla rabbia scrissi ad Emanuele che non faceva un accesso da circa tre ore.
Messaggio ad Emanuele :
« Ho bisogno di te. »
Presi il quadernetto che mi avevano regalato i miei genitori e iniziai a scriverci su qualcosa. È incredibile quanto delle note di un piano possano aiutare ad aprire la mente. Rimasi con le pagine vuote in mano a fissarle, erano asettiche e spoglie proprio come me e nel frattempo la penna giacque sulle lenzuola scombinate dai miei movimenti nel sonno.
Messaggio da Emanuele :
« Passi da casa mia? »
Messaggio ad Emanuele :
« Alla buonora! Comunque sì. »
Messaggio da Emanuele :
« Puoi passare quando vuoi, sono solo. »
Messaggio ad Emanuele :
« Perfetto, arrivo. »
Messaggio da Emanuele :
« Okay, lol. »
Diedi una pettinata veloce ai capelli, misi una maglia larga abbastanza da scomparirci e non notare più la forma del mio corpo, dei Jeans strappati sulle ginocchia e un po' lungo le gambe, un paio di converse parecchio rovinate e due gocce di profumo dietro le orecchie e sul collo. Afferrai anche le cuffie nella fretta e salutando uscii di casa, ovviamente prima ancora che qualcuno potesse dire qualcosa. In quel momento non mi importava molto cosa stessero pensando tutti gli altri che stavano all'oscuro della situazione. Mi importava solo di me stesso.
Messaggio da Emanuele :
« Valerio mi ha chiesto il tuo numero. »
Messaggio ad Emanuele :
« Dunque? » sorrisi scrivendolo.
Messaggio da Emanuele :
« Posso passarglielo? »
Messaggio ad Emanuele :
« Sì, nessun problema. »
Messaggio da Emanuele :
« Perfetto. »
Messaggio ad Emanuele :
« Cosa vuoi? »
Messaggio da Emanuele :
« Cosa dovrei volere? »
Messaggio ad Emanuele :
« Ormai ti conosco bene Lele, piantala. »
Messaggio da Emanuele :
« Adesso me chiami Lele? »
Messaggio ad Emanuele :
« Qualche problema? »
Messaggio da Emanuele :
« No dai, infondo è carino. »
Messaggio ad Emanuele :
« Non dire che sono carino. »
Messaggio da Emanuele :
« Ma te sei carino. »
Continuai a camminare lungo l'asfalto bollente e ne approfittai per guardarmi un po' intorno. Ci stava molta meno gente rispetto agli orari di punta e questa cosa mi fece sentire stranamente calmo. Il sole era cocente sopra la mia testa, d'altronde era ancora presto ed era alto. Cercai per questo dei punti d'ombra su cui transitare durante il tragitto. Dopo neppure una decina di minuti arrivai a casa di Emanuele e suonai il campanello. Si affacciò dal terzo piano e mi sorrise soltanto prima di sparire dentro casa e di aprire il portone di legno massiccio. La sua famiglia era più agiata di quanto lo sia stata la mia ed era in continua ricerca di una buona villetta nel quartiere Flaminio cosicché potesse lasciare questo. Salii le scale marmoree e giunsi da lui col fiato corto.
« Bella fra. »
« Dell'acqua » domandai.
Andò in cucina con la velocità di un razzo e tornò con bicchiere di vetro pieno quasi fino all'orlo.
« Ne vuoi dell'altra? » chiese dopo che la bevvi.
« Sì, grazie. »
Questa volta portò direttamente la bottiglia e la poggiò sul tavolo di vetro in salotto, stesso posto in cui sicuramente pranzavano e cenavano a giudicare da quanto lo usassero.
« Oggi ti porto a conoscere gente nuova. »
« Hai progettato tutto a quanto vedo » gli dissi.
« Ti piacerà, fidati di me. »
« Mi fido » affermai titubante.
« Qualcosa mi dice che non ne sei certo. »
Deglutii colpevole senza distogliere i miei occhi dai suoi, azzurri, profondi come l'oceano e luminosi come il cielo sgombero dalle nubi in un pieno giorno estivo.
« Ti hanno mai detto che hai degli occhi che sono uno spettacolo? Ti invidio per questo. »
« Almeno oggi non ho toccato il tasto Ludovica. » aggiunsi.
Mi guardò e la sua iride si espanse.
« No, ti prego » sbuffai.
« Le ho scritto » mi ignorò.
« E quando pensavi di dirmelo? »
« Be', a giudicare dalla tua espressione non ti interessava molto. »
« Scherzi? Merito di saperlo. »
« Adesso lo sai » fece spallucce.
« Lei t'ha risposto? »
« Sì. Parliamo in amicizia. »
« Beh, non è una cosa buona? »
« Per adesso sì » rispose soddisfatto.
« Sono speranzoso, secondo me la conquisterai. »
« Lo spero, mi fa impazzire » si morse il labbro alzando gli occhi al soffitto.
Ludovica era la mia compagna di classe con cui Emanuele non aveva mai avuto un dialogo d'intesa. Io al contrario suo sembravo starle molto simpatico, parlavamo e molto spesso mi scriveva per raccontarmi un po' della sua giornata. Nonostante questo non l'ho mai definita un'amica, così come con il resto dei ventotto individui tra le mura della mia classe. Ammetto che fosse abbastanza carina ed ammaliatrice, capelli scuri quasi quanto una pozza di petrolio, con gli occhi che vanno dal grigio al castano chiaro, il fisico slanciato, snello e quei lineamenti del viso che insieme alle labbra sfornavano un capolavoro che era pari ad un dipinto.
« Fa già tanto che vi parliate. »
« Esattamente. »
« Daje che poi usciremo insieme. »
« Sarai il terzo della coppia? » rise.
« Assolutamente no » dissi con ribrezzo « Parlo di un'uscita in comitiva. »
« Ma non hai una comitiva » mi guardò.
« Per ora » gli feci l'occhiolino.

SO BADARE A ME STESSODove le storie prendono vita. Scoprilo ora