Terapia

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"Mi dispiace per come ci siamo allontanati." disse piano Steve, mantenendo lo sguardo fisso sul cielo grigiastro tappezzato da grosse nuvole che si illuminavano ad intermittenza per colpa di qualche lampo. Si prospettava un brutto temporale.
La ragazza scosse il capo, alzando le spalle.
"Non è colpa tua. Ho scelto io di non voler più sapere nulla di voi. Bisogna imparare ad andare avanti, nella vita." rispose, portandosi alle labbra la tazza e bevendo un sorso della tisana al suo interno. Si sentiva la gola secca. Non aveva più parlato di quella stupida missione e non era sua intenzione farlo di nuovo, almeno non in quel momento. Ma Steve sembrava avere altri piani.
"Certo che è colpa mia, Liv. Non avrei dovuto incastrarti in una situazione così scomoda." continuò il ragazzo.
"Ho detto che non importa. Ci abbiamo provato." si strinse nelle spalle. Per lei quel periodo della sua vita era ufficialmente terminato con la terapia.

La sua psicologa era una donna che non superava i sessant'anni, pelle olivastra e occhi neri che la giudicavano sempre guardandola al di sopra degli occhiali dalla montatura tartarugata. Odiava quella donna, ma non aveva voglia di interrompere per cambiare medico, dato che questo avrebbe voluto dire dover ripetere tutta la sua storia e non tutti erano in grado di capire quello che stesse dicendo.
E quindi tutti i lunedì era costretta a dirigersi verso il centro storico e suonare il campanello con la scritta in corsivo d.ssa Redding. Poi la voce metallica di quella svampita della sua segretaria, Kathy. In fondo non era così male, ogni tanto era costretta a scambiarci due parole quando la dottoressa era in ritardo. Saliva le scale facendo scivolare i polpastrelli sul corrimano bianco e raggiungeva la porta sempre aperta della sala d'aspetto. Lo trovava così poco professionale. Non voleva che la gente vedesse che stava andando in terapia, così com'era sicura che nemmeno gli altri pazienti fossero molto contenti della cosa. O forse non se n'erano mai accorti? Beh, lei sì.
Entrava nella stanzetta dalle pareti verdi e si sedeva sulla sedia di legno.
"Il verde calma la vista!" aveva cinguettato Kathy dalla sua scrivania disordinata.
A me il verde fa solo venire la nausea. – aveva pensato Liv.
"Hai ragione, effettivamente è molto rilassante." aveva invece risposto. Falsa.
Poi la dottoressa usciva dal suo studio, quasi sempre con il solito paziente. Ormai lo riconosceva. Era un ragazzino di circa 19 anni, non sapeva perché fosse lì, ma più di una volta era uscito con le lacrime agli occhi. Lei non piangeva mai, invece. Era solo irritata dalle parole secche e troppo difficili della dottoressa.
"Vasilevsky." diceva sempre guardandola. Lo pronunciava in modo sbagliato, ma non aveva voglia di correggerla ed era sicura che anche lei non avrebbe ascoltato la correzione, continuando a dire quella S troppo somigliante ad una Z.
Si alzava ed entrava nella stanza, si sedeva sul divano bianco e incrociava le caviglie tra di loro, aspettando la solita stupida domanda.
"L'ha visto ancora?" chiedeva.
"No." rispondeva sempre. Non era vero e la dottoressa lo sapeva, dato che ogni volta alzava le sopracciglia e scriveva qualcosa nel suo fascicolo.
E poi la seduta continuava così per un'ora intera. Una faceva le domande e l'altra rispondeva secca, pochi giri di parole, qualche bugia.
"Se non ha altro da dirmi, ci vediamo lunedì alle sedici."
Quella era senza dubbio la sua frase preferita perché voleva dire che aveva finito, almeno per quel giorno.
Si alzava ed usciva, salutando Kathy con un sorriso tirato e scendendo i gradini a due a due. Tornava a respirare solo quando aveva svoltato l'angolo e stava tornando a casa, nel suo piccolo appartamento di Los Angeles.

"Stai ancora andando in terapia?" le domandò Steve. Lei scosse il viso.
"Come lo sai?" chiese, alzando lo sguardo su quello del ragazzo.
"Non puoi superare quello che è successo senza andare in terapia. – rispose, poggiando la tazza vuota sul davanzale della finestra. – E va bene così. Hai bisogno di tempo."
"Non è più questione di tempo. Sono passati più di trent'anni." sbottò, scuotendo nervosamente il capo e stringendo la tazza che teneva tra le mani.
"Dovresti affrontare questa cosa, lo sai?" domandò lui, incrociando le braccia al petto.
Non rispose, si limitò a fare una piccola smorfia e bere un sorso della sua tisana, finendola.
"Non c'è nulla da affrontare." concluse, alzando lo sguardo verso il cielo ed osservando una saetta spezzare le nuvole.
Rimasero in silenzio per almeno cinque minuti, fino a che la ragazza non si rimise in piedi e si stiracchiò la schiena, poi si fece scrocchiare le spalle ed il collo.
"Meglio andare a dormire. Fury domani ci vuole svegli." disse, per poi prendere le due tazze ed incamminarsi verso la porta, entrandovi e scomparendo dalla vista di Steve.
Lui si appoggiò di nuovo con la schiena al muro, lasciandosi scappare un sospiro.
La ragazza portò le due tazze in cucina e le poggiò nel lavandino, per poi tornare nella propria stanza e chiudersi la porta alle spalle. Steve non era più sul balconcino, così si tolse i vestiti indossando un paio di pantaloncini ed una canotta, entrando sotto alle coperte. Le mancava già il suo letto, ma sarebbero stati solo pochi giorni prima di poter tornare alla sua vita normale. La vita normale di una novant'enne che sembrava una vent'enne in una strana cittadina del North Carolina.

Faticava a prendere sonno. Magari era colpa del letto, nonostante fosse molto più comodo del suo a casa.
Si alzò e si avvicinò alla borsa, frugando al suo interno. Eccolo. Tirò fuori un flacone arancio e lo agitò appena, ne era rimasta solo una. Tornò a sedersi sul letto osservando l'unica pastiglia che le era rimasta. Passò il pollice sull'etichetta sbiadita sulla quale si potevano intravedere stampate le parole Clozapina – Helen Thompson.
Ogni volta che osservava quella boccetta semi vuota, si ricordava che non solo era una bugiarda ormai patologica, ma anche una stupida drogata che aveva bisogno di medicine rubate per dormire e per smettere di vedere quell'uomo che la seguiva ovunque.
Helen Thompson era la donna di cui si era occupata per quasi due anni, appena arrivata a Wilmington. Era una vecchia diva di Hollywood decaduta, o per lo meno questo è quello che le raccontava sempre. In realtà la povera Helen era solamente una vecchia pazza con problemi di schizofrenia e insonnia.
"Sai, io e James Dean eravamo amanti!" le ripeteva sempre mentre guardava la giovane che le preparava il pranzo. Liv si limitava a ridere e a girare le fettine di pollo sulla piastra, facendole qualche domanda a cui puntualmente non sapeva rispondere. Helen era una donna molto bella, spesso le faceva vedere le sue foto da giovane e se non avesse saputo della sua malattia, ci avrebbe anche quasi creduto che James Dean si fosse innamorato di lei.
Purtroppo, una calda notte di agosto, la signora Thompson morì improvvisamente nella sua camera da letto. Olivia se ne accorse solo la mattina seguente quando le portò la colazione. Fece cadere il vassoio, tagliandosi con i cocci del piatto e scottandosi con il thè bollente. Chiamò subito l'ambulanza, ma non poterono fare nulla se non dichiararne il decesso.
Qualche giorno dopo il funerale, mentre sistemava gli averi della donna, trovò la scatola di compresse e la ricetta. Le fece scivolare lentamente nella tasca anteriore del proprio zainetto. Non sapeva cosa le avrebbero fatto, ma pensava le avrebbero fatto passare quel senso di angoscia che la tediava.

Corrugò la fronte e poggiò il contenitore sul comodino, stendendosi di nuovo e guardandosi intorno. Si sentiva stanca e confusa, la sua mente cominciava a giocarle brutti scherzi.
"Liv non deve sapere che sei qua." sentì dall'altra stanza Steve che parlava con qualcuno.
"Fammela vedere, ti prego." non era solo.

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