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Giugno 2026

Olivia era seduta dentro alla cappella centrale di Wilmington, sul lato destro proprio sotto al grande mosaico in vetro. L'abito nero le batteva sul polpaccio e le maniche strette a tre quarti mostravano un orologio argenteo fermo sulle sei e ventidue. Le dita lunghe ed affusolate battevano sul ginocchio ricoperto dalla stoffa nera, nervose. Lo sguardo era fermo sulla bara in legno chiaro al centro della navata. I suoi occhi erano lucidi e gonfi dal pianto, il mascara appena colato sotto all'occhio. Spostò lo sguardo stanco sulla foto stampata.
"Per sempre nei nostri cuori."
Recitava la scritta in blu scuro. Sospirò. Il sorriso di Katrine Moore era impresso sul lucido del cartellone. Il suo inconfondibile rossetto color lampone le illuminava il viso dolce. Abbassò lo sguardo e si asciugò veloce una lacrima con il dorso della mano. La signora Moore era malata da tempo, ormai. Un brutto male l'aveva resa negli ultimi anni estremamente fragile. Dapprima smise di uscire di casa, di andare a fare la spesa e di andare con il suo adorato cagnolino a passeggiare nel parco. Poi smise anche di uscire in giardino, di fare dolci e di prendere il thè con Olivia la domenica pomeriggio. Olivia le stette vicino quanto più possibile, imparò a farle i dolci e andava sempre a fare la spesa per lei e la sua famiglia. Conosceva quello che si provava quando qualcuno di affezionato stava soffrendo.
Lasciò la famiglia sola solo quando la donna era immobilizzata sul suo letto, priva di forze. Il suo viso era asciutto e pallido, i capelli radi e le mani ossute e tremanti. La abbracciò dolcemente, prima di salutarla. Poi, due giorni dopo, il marito le si presentò alla porta con lo sguardo stremato. Li aveva lasciati.
Era stato un altro degli addii difficili da digerire, un addio da aggiungere alla lista. La donna era stata l'unica che anche dopo quella triste notte l'aveva trattata come ogni volta. Per i primi giorni le portò ogni pasto, era convinta che avrebbe smesso di mangiare per il dolore; poi andò a trovarla spesso, proponendole anche di andare con lei e la sua famiglia negli Hamptons per un weekend. Liv inizialmente rifiutò, ma fu costretta a cedere quando la donna le suonò al campanello una mattina con la macchina carica ed una tazza di caffè bollente nelle mani per lei.
Ed ora era lì, a salutare la sua amica per l'ultima volta.

Non era pronta a dire addio anche a lei. Non lo era mai stata, in realtà. Non era mai stata capace di dire addio alle persone. Non lo era stata quando avevano detto che Bucky era morto, negli anni '40. Non lo era stata quando il padre, che tanto detestava, se n'era andato. Non lo era stata nemmeno quando la madre esalò l'ultimo respiro. O quando ritrovò la signora Thompson senza vita nel suo grande letto antico. Aveva una lista davvero lunga di persone a cui aveva dovuto dire addio ed il nome di James era comparso e ricomparso più volte.
L'ultima, alcuni anni prima, quando cercò in tutti i modi di bloccare il sangue che fuoriusciva dalla ferita del ragazzo con le proprie mani. Steve e Sam l'avevano dovuta riportare in casa e lavare tra un singhiozzo e l'altro, mentre la gola le bruciava dalle urla e gli occhi avevano ormai terminato tutte le loro lacrime. Aveva aspettato per giorni e notti una chiamata dall'ospedale. Giorni interminabili e notti insonni passate sul divano, accanto al telefono che non suonava mai. Mai un messaggio. Mai una chiamata. Quando questa arrivò, però, la ragazza si sorprese di non riuscire a rispondere.

Si alzò ed uscì dalla chiesa, in silenzio. Non aveva il coraggio di avvicinarsi di nuovo alla donna. Avrebbe preferito ricordarsela come la bella donna nella foto, con il suo bel sorriso color lampone, i suoi occhi brillanti ed i capelli che profumavano di cannella.
I tacchi neri rimbombavano sordi sul marciapiede bollente, mentre il sole le pizzicava la pelle pallida. Nell'aria poteva percepire il caratteristico profumo che preannunciava l'estate.
Giunse sul vialetto di casa e lo percorse fino al portico di legno, entrando in casa. Posò le chiavi e la borsetta sul mobile all'ingresso e si guardò veloce allo specchio. Aveva gli occhi arrossati e le guance ricoperte di un flebile alone nerastro. Ci passò la mano e lo fece scomparire, strofinandosi poi nervosa il braccio. Non avrebbe voluto farsi vedere così.
"Mamma!" gridò una vocina, seguita immediatamente da alcuni passi piccoli e veloci. Un bimbo di circa tre anni dai capelli biondi e le guance chiare le corse incontro comparendo dalla porta del salotto, con indosso una sola scarpa e una grande macchia di marmellata di fragole sul mento. Le stava mostrando una locomotiva in legno che quasi faticava a tenere tra le mani. La ragazza sorrise e si chinò, prendendolo tra le braccia ed osservando per alcuni istanti il giocattolo. Gli stampò un grande bacio sulla guancia, stringendolo dolcemente a sé e pulendogli il viso con un dito.
"È veramente stupenda, amore. Ora andiamo da papà, okay?" sussurrò piano accarezzandogli la schiena con la mano. Il bimbo annuì e si incamminò verso la sala.
"Liv!" disse lui voltandosi. Tra le braccia cullava e teneva stretta una bambina di qualche mese che si era appena addormentata. Il viso angelico e rilassato era semi coperto dalla manina poggiata sulla guancia. Si avvicinò a lui e gli lasciò un bacio sulle labbra, poi lasciò un bacio sulla fronte della bimba.
"James." sussurrò piano, guardandolo negli occhi. Quando stringeva la bambina, la sua espressione era sempre così dolce.
"Si è appena addormentata." la informò mentre le cingeva la vita con un braccio per attirarla a sé e lasciarle un altro bacio sulle labbra. Il bambino che teneva stretto fece una smorfia e rise, così i due si allontanarono appena imbarazzati.
"Gli altri stanno arrivando?" chiese la ragazza, posando il bimbo a terra. Bucky annuì.
"Saranno qui tra una mezz'oretta. Vai a metterti qualcosa di comodo, che ne dici?" la osservò per alcuni istanti mordendosi distrattamente il labbro inferiore. Tutto sommato, la trovava molto carina con quel completo nero, ma era sicuro che si sarebbe lamentata dopo meno di un'ora. Lei annuì e si incamminò verso il piano superiore. Superò quella che fino a pochi anni prima era stata la camera degli ospiti, quella camera da cui aveva salvato James dai rumori notturni di Sam e Steve. Rise e si chiuse la porta alle spalle, spogliandosi lentamente ed indossando un abitino estivo a pois con un paio di sandali neri. Si sedette sul letto per alcuni istanti. A volte le serviva ancora del tempo per comprendere ed accettare quello che era successo.
Aprì il cassetto, dal quale tirò fuori una piccola scatola in legno. Al suo interno, tre braccialetti bianchi, tutti provenienti dal medesimo ospedale.
Thomas Steven Barnes recitava il primo.
Elizabeth Katrine Barnes diceva il secondo.
E poi l'ultimo. Sgualcito. Aveva alcune macchie di sangue che ne ricoprivano la parte inferiore.
James Buchanan Barnes.

Chiuse gli occhi e si lasciò scappare un sospiro. Nella mente le ritornarono come dei flash le immagini di quella straziante serata in cui, per l'ultima volta, era convinta di averlo perso. Lo dovette salutare con le lacrime che le offuscavano la vista mentre un medico disse a Sam che probabilmente non ce l'avrebbe fatta. Lei e i due amici aspettarono per due giorni e due notti una chiamata dall'ospedale. Quando questa arrivò, costrinse Steve a rispondere. Era vivo. Estremamente debole, ma vivo. Pianse di nuovo con le poche lacrime che le erano rimaste in corpo. La riabilitazione fu lunga e difficile, ma i medici e i suoi amici gli permisero di tornare ad una vita del tutto normale prima dei tempi previsti.
Decise di rimanere a Wilmington con Olivia. Di voler mettere su famiglia con la donna che tanto amava. Lei ne rimase piacevolmente sorpresa. Ma non sorpresa quanto quella sera, ad una cena a base di gamberetti e gin tonic alla Stark Tower, dopo alcuni bicchieri di troppo, quando lui le chiese di sposarlo con un bellissimo anello che teneva nascosto in tasca da giorni senza trovare mai il coraggio. Questo fu solo un altro pretesto per bere ancora di più. La famiglia Moore fu invitata, come sperava tanto Olivia, al matrimonio. Un bellissimo ricevimento con tantissime persone e amici a circondarli. Finalmente, poteva definirsi una donna felice, come sognava nel 1950.
Avrebbe tanto voluto, in quel momento, poter dire alla madre che era felice. Che erano nati due meravigliosi nipotini e che era terrorizzata dal fatto che prima o poi avrebbero mostrato i loro poteri mutanti. Ma non sarebbe più scappata, questa volta. Sapeva di poter contare sulla sua famiglia. James era la sua famiglia, ora.

Due colpetti alla porta e questa si aprì.
"Tesoro, sono arrivati Steve e gli altri." Bucky stava in piedi dietro la porta ad osservare la ragazza con i braccialetti tra le mani. Le si avvicinò e le cinse le spalle con il braccio.
"Non devi più preoccuparti di nulla, d'accordo? Solo al fatto che ho lasciato i nostri figli nelle mani di Steve, Sam, Peter e Thor, quindi se fossi in te, scenderei in fretta." risero entrambi, scambiandosi un bacio delicato a fior di labbra, poi si alzarono ed uscirono dalla camera, felici.
Era quella la vita normale che aveva sempre desiderato.

Fine.

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