Philadelphia

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Il cielo stava ormai diventando rossastro ed il sole si stava abbassando dietro agli altri grattacieli di New York.
La ragazza uscì dal bagno avvolta da una nuvola di vapore profumato, coperta da una salvietta bianca con un ricamo rosso e blu su un'estremità. Si sedette sul letto, lo sguardo assorto verso l'ampia finestra davanti a sé. Se chiudeva gli occhi, poteva vedere la figura di Bucky che le sorrideva. Rabbrividì al solo pensiero che fosse ancora vivo.
Qualcuno bussò alla porta.
"Si?" domandò distogliendo lo sguardo dalla finestra, portandolo sulla porta che si stava aprendo.
"Stasera vengono Sam e Buck a cena, so che mi hai detto di non avere fame ma se volessi unirti a noi, ci farebbe molto piacere..." disse Steve leggermente imbarazzato fermo sullo stipite della porta. Sapeva che la ragazza era ancora frastornata per la storia di Bucky e forse invitarlo a cena non era l'idea migliore, ma prima o poi avrebbero dovuto parlare. La ragazza ci pensò qualche istante in silenzio. Il suo stomaco già chiuso si contrasse al nome di Bucky. Avrebbe dovuto affrontarlo prima o poi e, forse, farlo prima della missione l'avrebbe fatta combattere con un peso in meno.
Alzò lo sguardo ed annuì appena, anche lei visibilmente imbarazzata. Steve fece un grande sorriso e si mise dritto in piedi. Aveva uno sguardo orgoglioso.
"Pensavamo di ordinare cinese, ti piace? Che cosa vorresti?" domandò.
Lei annuì di nuovo, poi pensò a che cosa volesse mangiare. Andare in missione a stomaco vuoto sarebbe stata una pessima idea.
"Prenderò degli spaghetti di riso con le verdure, ti ringrazio." gli sorrise dolcemente e si alzò dal letto una volta che lui uscì dalla stanza, prendendo un paio di pantaloncini neri ed una felpa, indossandoli.
Uscì dalla stanza e andò in cucina, dove prese dei piatti e li posizionò sul tavolo. Steve si voltò e la guardò sorridendo, mettendo i bicchieri e le posate.
"Se dovessi sentirti a disagio o non star bene, ti prego di dirmelo." le disse spostandole una ciocca di capelli dietro all'orecchio, andando poi verso il frigorifero e tirando fuori alcune birre e una bottiglia di vino.

Non passò più di mezz'ora che qualcuno suonò al citofono. Il sangue le si raggelò nelle vene e per un istante guardò Steve con aria terrorizzata. Il ragazzo e le fece un occhiolino, mimando con le labbra "va tutto bene", poi andò ad aprire. Dalla cucina poteva sentire le voci dei tre ragazzi provenire dalla sala.
Puoi farcela. Smettila di fare la debole. Saluta e fai la persona normale. – si disse mentre riusciva a percepire i passi avvicinarsi. Non appena alzò lo sguardo i tre ragazzi erano entrati in cucina. Sam si avvicinò a lei, stringendole le spalle e salutandola con un grande sorriso, che lei ricambiò. Bucky, d'altro canto, sembrava imbarazzato e a disagio.
Saluta, cretina. – si disse. Alzò una mano in cenno di saluto, facendo un sorriso. Le sembrava assurdo. Il ragazzo alzò un angolo delle labbra, salutandola con un piccolo movimento della testa.
"Bene, tra poco dovrebbe arrivare la cena... – annunciò Steve percependo il disagio – Prendete una birra, mentre aspettiamo."
E così fecero, sedendosi al tavolo. Sam e Steve furono estremamente bravi a togliere la stanza da quell'aura imbarazzante in cui si era immersa, facendo ridere il gruppo e facendo parlare anche i due più silenziosi. Finalmente il cibo arrivò ed insieme alle confezioni di cibo che avevano mangiato, sul bancone comparvero anche numerose bottiglie di birra. Il tono della loro voce si stava alzando e Bucky e Olivia sembravano come essersi dimenticati tutto quello che era successo, nonostante faticavano a parlarsi direttamente.
"Allora, Olivia. – Sam si voltò verso di lei con un sopracciglio alzato – Raccontaci del tuo bellissimo viaggio in Italia."
La ragazza rise e prese il bicchiere di vino in mano, avvicinandolo al proprio viso e facendo entrare in contatto la sua guancia con il vetro freddo. Era abbastanza brilla da non aver paura di essere giudicata.
"Oh beh, è stato un anno stupendo. Vivevo a Milano a casa di questa famiglia che cercava una babysitter. Avevano un bellissimo appartamento vicino al Castello Sforzesco, una vista mozzafiato. Era l'82, se non mi sbaglio. E vivevo di pasta, pizza, vino, feste e passeggiate in Piazza Duomo con questo bellissimo ragazzo italiano." iniziò lei, guardandoli con aria sognante, ricordando i bei momenti passati in Italia.
"I ragazzi italiani non sono poi così carini." sbottò Bucky, anche lui abbastanza alticcio. Lei fece una smorfia.
"Andrea, così si chiamava, era il ragazzo più bello che io avessi mai visto. Aveva i capelli scuri e ricci, gli occhi verdi, guidava una moto nera opaca e aveva un accento meraviglioso." rispose lei, bevendo un sorso di vino.
"Il ragazzo migliore che tu abbia mai conosciuto?" domandò Sam, provocandola.
Lei rimase in silenzio ed abbassò lo sguardo per qualche istante. Poteva percepire gli occhi di tutti e tre i ragazzi puntati su di lei. Scosse il viso.
"Il ragazzo migliore che io abbia mai conosciuto credo sia una parte del mio passato, ormai. – rispose seria, per poi alzare lo sguardo e rivolgerlo verso Bucky – Ma lo amerò per sempre."
Sorrise appena per poi alzarsi dalla sedia, congedandosi con un cenno della mano e uscendo dalla cucina. Si era resa conto troppo tardi di quello che aveva detto. Nella cucina era calato il silenzio, mentre sul viso di Bucky comparve un piccolo, impercettibile ma sincero sorriso.

La ragazza si mise veloce sotto alle coperte, chiudendo gli occhi. La testa le girava e sentiva tutti i suoi arti atrofizzati.
Aprì improvvisamente gli occhi quando sentì qualcosa farle una forte pressione sulla gola. Poggiò le mani sul materasso, ma questo era stato sostituito dall'asfalto freddo e ruvido. Cosa stava succedendo? Dov'era? A poco a poco cominciò a sentire delle urla, spari, rumore di macchine che inchiodavano e lasciavano lunghe scie nere con le gomme sulla strada. Alzò lo sguardo e spalancò gli occhi quando vide Bucky su di lei, gli occhi scuri e i lunghi capelli neri gli nascondevano il viso, macchiato di sangue e polvere.
"B-Bucky." gridò lei, ma la voce era strozzata. Faticava a respirare e sentiva la sua mano fredda schiacciarle la trachea.
Si alzò di colpo, cacciando un urlo. Era di nuovo nella stanza di Steve. Cercò di respirare profondamente, portandosi una mano sulla fronte. Era uno stupido sogno.
Si portò la mano sulla gola e quasi le sembrava di percepire ancora quella del ragazzo che stringeva con forza.
La porta si aprì di colpo e i tre ragazzi entrarono.
"Liv!" gridò Steve, avvicinandosi al suo letto e sedendosi su di esso, porgendole le mani per offrirle un abbraccio.
La ragazza si strinse a lui, mettendo il mento sulla sua spalla. Alzò quindi gli occhi verso Bucky e Sam fermi sulla porta.
"Tu vuoi uccidermi. Di nuovo." sibilò guardando il ragazzo negli occhi, mentre riuscirono a percepire la terra tremare appena sotto ai loro piedi. Steve la strinse più forte e le lasciò un piccolo bacio tra i capelli. Il tremolio finì.
Era convinta che lui avrebbe cercato di farle di nuovo del male. Di ucciderla. Non c'era riuscito quella volta, nell'88 a Philadelphia, ma questa volta lei era più debole. Avrebbe potuto ucciderla in pochi istanti.
Steve sciolse l'abbraccio e la guardò serio negli occhi. Era successo solo due volte fino ad allora, la prima quando lui la rimproverò per aver usato i suoi poteri su un gruppo di cadetti che la stavano prendendo in giro, rompendo loro qualche osso, e la seconda volta quando si presentò a casa sua con l'agente Carter per dirle che avevano trovato Bucky e avevano bisogno di lei per farlo tornare cosciente. Non ci erano riusciti, anzi lei rischiò di morire e fu portata d'urgenza in ospedale, poi in un istituto per persone emotivamente instabili. Aveva visto l'amore della sua vita cercare di ucciderla. Non aveva idea di chi lei fosse. Non era più James.
"Devi affrontare questa cosa. Ora." le disse annuendo piano. Lei abbassò lo sguardo. Poi annuì a sua volta.
Steve si alzò e si avvicinò ai due amici, sussurrando qualcosa ed allontanandosi seguito da Sam. Bucky, invece, entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle.

"Olivia..." cominciò lui, mettendosi in fondo al suo letto e sedendosi. Lei non rispose.
"Devo chiederti scusa, per tutto. Io non sono quel mostro. Non lo sono mai stato. Non ricordo nulla di quel periodo. Non mi ricordo di te, a Philadelphia." aggiunse. Nella sua voce si poteva sentire una nota di malinconia.
"Tu hai cercato di uccidermi. Mi hai stretto la mano attorno al collo così forte che ho avuto i lividi per tantissimo tempo. Ogni volta che mi guardavo allo specchio, potevo vederli. Potevo vedere come la persona che amavo ha provato a togliermi la vita." disse lei tutto d'un fiato. Se non glielo avesse detto ora, non glielo avrebbe detto mai più.
"Non potrei mai farlo, Liv." rispose lui, avvicinandosi piano a lei.
"Lo hai fatto. E io non sono stata abbastanza forte da colpirti per allontanarti. Avrei lasciato che mi uccidessi, piuttosto che farti del male." concluse lei, abbassando il viso. Le risultava così semplice ora dirgli tutto quello che pensava, diversamente da come si era immaginata. Succedeva spesso. Si metteva davanti allo specchio e cominciava a parlare, ma le parole le sembravano un miscuglio di sillabe e finiva sempre per piangere con la schiena contro al vetro della doccia. Non aveva mai avuto altri epiloghi.
"Avresti dovuto farlo, invece." rispose il ragazzo con un forte senso di colpa nel petto. Sapeva che non era colpa sua, che non era in lui, ma non si sarebbe mai perdonato il fatto di poterle fare del male.
La ragazza scosse il viso.
"Io ti vedo quando cammino per strada, quando provo a farmi la doccia la sera, quando preparo il pranzo, quando provo a piantare quelle stupide rose che mi ricordano tanto te e il nostro stupido primo appuntamento." gridò lei nervosa, mentre con un veloce gesto della mano creò una folata d'aria che fece spostare e cadere per terra tutto quello che aveva sul comodino. Bucky si alzò e raccolse le cose velocemente, osservando per pochi istanti il flacone arancio.
"Vattene, ti prego." era imbarazzata e agitata. Lui riappoggiò le cose sul comodino, uscendo in silenzio e chiudendo la porta. La conosceva abbastanza bene per sapere quando era ora di lasciarla sola.
Si ributtò sul letto, coprendosi il viso con il cuscino e scoppiando in un pianto isterico, singhiozzando fino a che non riuscì finalmente ad addormentarsi. Il cuore, piano piano, stava tornando a battere regolare.

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