Capitolo 10. Visioni

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Una coltre leggera di nebbia era l'unica cosa distinguibile in una profonda e avvolgente oscurità.

Non avrei saputo dire di cosa si trattasse. A essere morto, non mi pareva. Eppure, sicuramente non ero sveglio.

Dinnanzi a me c'era...niente.

I miei occhi non furono in grado di distinguere alcun dettaglio preciso, solo un'immensa distesa nera e imperscrutabile.

Niente che fosse anche solo lontanamente percettibile, non un suono, non una voce.

Il nulla totale.

La cosa in sé per sé poteva apparire angosciante, eppure mi sentivo incredibilmente calmo, tranquillo, come se tutto fosse sospeso.

L'ultima cosa che riuscivo a ricordare era l'ammasso brulicante di bambini defunti che si accalcavano avidamente sul mio corpo e la voce di Abohr, in lontananza, che mi chiamava disperato.
Poi forse un fischio assordante...
Un rumore...
Ma non avrei saputo dirlo con certezza...
Dannazione, pensai. Cosa diavolo stava accadendo? Dove mi trovavo?

D'un tratto, mi ricordai della ferita al sopracciglio e istintivamente mi portai la mano vicino all'occhio: niente taglio, niente sangue.

Ma allora... ero morto davvero?
O mi ero sognato tutto?
Un nuovo senso di smarrimento si fece strada nel mio ventre e, per la prima volta, iniziai a sentirmi agitato.

Mi guardai intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi a capire dove mi trovassi.
Stavo quasi per abbandonarmi alla disperazione, vista l'impossibilità di distinguere qualche dettaglio inyorno a me, quando ecco che di colpo scorsi una fievole luce, distante. Non era un fascio, ma, tuttalpiù, un puntino minuscolo, molto lontana da me; ero riuscito a notarlo quasi per caso.
L'istinto, per qualche strana ragione, mi spingeva ad avvicinarmi.

Inviai alle gambe lo stimolo di mettersi in moto e, per fortuna, quelle mi risposero come dovuto. Ripresi coscienza delle estremità del mio corpo, della loro proiezione nello spazio circostante, e la sensazione fu incredibilmente singolare.

Mi avviai a passi lenti verso quella fonte di luce, scrutando a destra e a sinistra l'eventuale presenza di pericoli.

Nel mezzo del silenzio più totale, un suono ovattato attirò la mia attenzione.

No, non un suono, a voler essere precisi, ma una voce. Una voce di donna, un lamento.

"C'è qualcun altro qua dentro?"

I miei passi si fecero più cauti e le mie orecchie si predisposero a captare qualsiasi segnale. Ecco che al lamento si aggiunse un pianto improvviso, le grida acute di un neonato in lacrime.

Col cuore martellante, girai su me stesso.

Come proiettato all'interno di un sogno, dove non è chiaro il confine tra un'immagine e l'altra, mi ritrovai al cospetto di figure confuse ed evanescenti, quasi che la loro presenza lì fosse impalpabile e fugace.

Sbattei le palpebre un paio di volte, più a voler scacciare il torpore dalla mia mente che a rischiarare la visuale
A pochi passi da me, scorsi la geometria confusa e appena distinguibile di quello che mi sembrava un letto piccolo e stretto, bastevole a ospitare una persona sola.

Deglutii confuso, avvicinandomi.

Sul letto vi era una donna bruna, dall'aspetto vagamente emaciato, con le braccia tese davanti a sé; nonostante la discreta vicinanza, non riuscivo a distinguere il volto. Una seconda donna, in piedi, anche lei col volto indistinguibile, le stava poggiando in grembo un piccolo infante, tutto nudo e bagnaticcio, il quale urlava a pieni polmoni tutto il suo dissenso. Non appena la prima donna l'ebbe preso in braccio, però, si acquietò all'istante.

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