Prologo

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Era una notte magica. L'acqua sembrava brillare di luce propria e veniva leggermente increspata dal vento. Dalla spiaggia provenivano voci concitate e musica e la brezza ravvivava i falò che creavano ombre dai mille volti sulla sabbia. I ragazzi ballavano e bevevano e festeggiavano l'inizio dell'estate e la fine della scuola. Creavano una dolce melodia nel silenzio della notte. Il cielo era illuminato dalla volta celeste, uno spettacolo meraviglioso andato in scena solo per quei ragazzi, come se avesse fatto loro un regalo, come se fosse di buon auspicio per il futuro che doveva arrivare.

Guardavo dalla finestra della mia stanza la luna con il suo pallore riflettersi nell'oceano e con un sospiro feci un passo indietro proprio mentre una coppia di innamorati si rincorreva alzando i granelli di sabbia al loro passaggio.

Accostai lentamente la tenda mentre lui la prendeva in braccio per farla volteggiare.

Salutai la California con i mille battiti del mio cuore ferito che mi rimbombavano nella testa, nelle vene, in tutti i pori del mio corpo.

Finii di mettere le ultime cose in valigia e con molta fatica cercai anche di chiuderla.

Una volta finito, mi sedetti sul letto e feci vagare lo sguardo per tutta la stanza, le pareti ormai spoglie, private delle tracce del mio passaggio. Un fiume di ricordi si stava impossessando di me, così chiusi gli occhi. Posai la valigia per terra e misi in bella vista il biglietto aereo.

In camera mia c'era uno specchio abbastanza lungo da potermici specchiare per intero. Lo raggiunsi. Vidi una persona che fino a due mesi prima avrei giurato di conoscere. I capelli ondulati mi ricadevano spenti sulle spalle, sulla fronte una frangia troppo lunga nascondeva due occhi di ghiaccio ormai sciolto, segnato da occhiaie profonde, e un nasino all'insù entrava in collisione con delle labbra sottili e screpolate. Le mie mani con le unghie mangiucchiate fino alla carne, istintivamente, si posarono sul mio ventre e lo accarezzarono.

<<Lo sto facendo per te>>, sussurrai.

La California mi aveva dato tanto, ma altrettanto mi aveva tolto e non potevo rimanerci un minuto di più. Stavo soffocando, i miei polmoni reclamavano la libertà e non solo per me stessa, ma anche e soprattutto, per la vita che portavo in grembo.

Mi addormentai sognando di nuotare per l'ultima volta nello specchio d'acqua davanti a casa mia, sognando i colori del tramonto riflessi tra le onde, sognando la sabbia umida sotto i piedi che sprofondavano a ogni mio passo, lasciando impronte provvisorie cancellate dall'oceano al contatto con la riva.

E come una di quelle impronte, la mattina seguente, alle prime luci dell'alba, presi i miei bagagli, chiusi le finestre e la porta, con due mandate. Lasciai le chiavi sullo zerbino e mi allontanai senza nemmeno voltarmi.

Sparì più velocemente di quanto fossi apparsa qui quattro anni prima.

Chicago era molto diversa dalla cittadina in cui abitavo.

Era caotica, affollata e viva, non dormiva mai. Col tempo mi sarei abituata al nuovo stile di vita, ma mi sarei portata dentro per sempre un senso di malinconia, di nostalgia, verso l'oceano che mi aveva accompagnata durante il mio periodo di crescita nel mondo.

L'oceano era mio amico.

Mi ero trasferita in California con i miei genitori all'età di sedici anni. Mio padre aveva trovato lavoro lì ed ero stata estirpata dal mio luogo d'origine e avevo faticato tanto per integrarmi nel nuovo ambiente. Non ero una ragazza particolarmente socievole, preferivo starmene in disparte a leggere un buon libro, durante la pausa pranzo in mensa. Non andavo alle feste e non avevo delle migliori amiche. Tutto questo può sembrare triste, ma io ero contenta così.

Per la maggior parte del tempo mi dedicavo a fare lunghe passeggiate sul piccolo angolo di spiaggia privato davanti alla nostra villetta a due piani. Quando litigavo con mamma, quando Joel, mio fratello, faceva troppi capricci e non sopportavo più le sue urla, uscivo per incontrare la tranquillità e tutto scompariva davanti all'acqua azzurra e cristallina.

Sedevo vicino alla riva, lasciando che l'acqua mi lambisse le gambe e affondavo le dita nella sabbia bagnata e sentivo di appartenere a quel luogo.

Fissavo l'orizzonte mentre intrattenevo conversazioni silenziose con l'oceano, a cui raccontavo tutto, tutti i miei dubbi, tutte le mie belle giornate e anche quelle pessime e tutti i miei segreti.

Era stato il primo a sapere di Fagiolino in un pomeriggio particolarmente ventoso. Alla notizia un'onda più alta delle altre mi aveva travolto, a significare che l'oceano mi dava la sua benedizione. O almeno, così mi piaceva pensare.

Era stato il primo a sapere che lo avrei abbandonato, a malincuore, e la situazione era così buffa! Quattro anni prima piangevo ogni sera fino ad addormentarmi perché mi mancava Portland, da morire, ma col tempo mi ero abituata alla California e avrei versato la stessa quantità di lacrime per lei.

Chicago non era stata la mia prima scelta come meta per una vacanza in solitaria, ma zia Tess si era trasferita lì, un anno prima, e avevo chiesto ai miei se potevo passare l'estate da lei. Mi sembrava un buon compresso: prima vacanza senza genitori, ma comunque con la supervisione di un adulto. Zia lavorava in un ristorante molto famoso in città, o meglio, lo possedeva. Già, zia Tess aveva messo da parte la sua fortuna ottenuta con il sudore della fronte e aveva realizzato il suo sogno. All'inizio i miei non ne volevano sapere di darmi il permesso, ma ero più che maggiorenne ormai! Avevo cominciato a persuaderli per quell'estate già dall'estate precedente, appena ricevuta la notizia del trasloco della zia e avevo ottenuto risposte negative fino a cinque mesi prima.

Mio padre aveva saputo che avrebbe lavorato tutta l'estate e mamma sarebbe stata impegnata nella sua campagna elettorale (voleva diventare il sindaco della nostra piccola comunità) e una sera mi avevano fatto sedere in salotto.

<<Abigail, dopo attente considerazioni, abbiamo deciso che farti rimanere qui per tutta l'estate sarebbe davvero crudele, noi saremmo impegnati tutti i giorni, quindi hai il permesso di...>>, non li avevo nemmeno fatti finire di parlare, che ero corsa ad abbracciarli. Ero rimasta sveglia fino a tardi, quella sera, un po' perché mi avevano elencato una marea di regole da rispettare, inclusi doveri come lavorare nel ristorante della zia, un po' perché non riuscivo ad addormentarmi, talmente ero eccitata all'idea della mia prima vacanza lontana da casa, da sola. Avrei spiccato il volo.

Convincere zia Tess, invece, era stato facilissimo. Diceva sempre che ero la sua nipotina preferita (nessuno si ricordava che avevo più di vent'anni), nonché l'unica, visto che avevo solo cugini maschi, un dettaglio che non sembrava ricordarsi o di cui tenere conto.

Entusiasta, non vedeva l'ora di farmi conoscere la sua città, di passare un po' di tempo con me (non ci vedevamo da tre anni), di fare shopping sfrenato e di provare tutti i ristoranti brasiliani, messicani, cinesi e thailandesi della città.

Avevo programmato tutto nei minimi dettagli, sarei partita all'inizio di giugno e tornata... certo che sarei tornata, ma adesso... no. Non potevo tornare in quella casa, in quel luogo, in quella città che mi ricordava ogni secondo che loro non c'erano più.

Abigail Poult da ventidue anni.

Orfana da quattro mesi, dodici giorni, sette ore.

Incinta di otto settimane.

Sola.

Sola.

Sola.

Così Lontani, Così ViciniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora