22. Tess

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<<Non puoi lasciarmi, Abigail. Anche tu no. No. Sono stata così cieca, sono stata una stupida!>>, le mie gambe cedettero, scivolai lungo la parete e lì rimasi, rannicchiata, la testa tra le ginocchia. Non dormivo da quella telefonata. Le urla di Juanita. Il viso pallido di mia nipote. Le luci lampeggianti davanti all'ingresso, i paramedici che invadevano l'appartamento.

<<Mi odi, vero? Ti ho deluso, Margaret. Ho fallito. Come ho fatto a non accorgermi che tua figlia stesse così male? Si stava sgretolando sotto i miei occhi...>>

Ha avuto un attacco di panico, è come se la sua mente non riuscisse più a connettersi con la realtà, è successo qualcosa che l'ha come... come chiusa in sè. Ha vissuto qualcosa che il suo cervello sapeva non avrebbe sopportato e si è spento.

È svenuta, ma non ha picchiato la testa, nessuna commozione cerebrale e la bambina sta benissimo, lascerò qui l'apparecchio per sentire il battito, così starete più tranquilli. Basta che chiamate un'infermiera.

Le ho dato un calmante, un medicinale che non nuoce al feto.

Ha solo bisogno di riposo.

Quando si sveglierà, vedremo il da farsi per il proseguimento della gravidanza.

Assoluto riposo, nessun tipo di stress o emozioni forti. Dovrà stare tranquilla, non per forza a letto, sarà libera di muoversi, vivere la quotidianità, solo, con un pò più di accortezza.

Dei passi.

Mi asciugai in fretta il volto e mi alzai, pronta a chiedere notizie al dottore o all'infermeria, ma quando posai lo sguardo davanti a me...

<<Cosa ci fai qui?>>

Entrò nella stanza e io indietreggiai, fino a ritrovarmi di nuovo addosso alla parete fredda della stanza. Mi raggiunse in un secondo. Senza dire niente.

Non ce n'era bisogno.

Abbassai gli occhi, incapace di guardarlo, piena di vergogna, per quello che gli avevo fatto. Lo avevo trattato malissimo, lo avevo ignorato, gli avevo spezzato il cuore e lui era lì, lì per me, per noi, per sostenermi.

Lo sentii sospirare, combattuto, come se non sapesse se potesse.

Agì comunque.

Lo lasciai fare.

Affondai il viso nel suo petto, strinsi la sua maglietta tra le mani, inspirai il suo profumo. Avevo esaurito le lacrime. Ero così stanca. Così stanca di soffrire. Che la vita ci stesse facendo soffrire.

Mi mancava mia sorella.

Mi mancava l'uomo che aveva reso felice mia sorella.

Mi mancava mio nipote, un ragazzino scatenato, affamato di vita, che solo un mese prima avrebbe compiuto tredici anni.

Mi circondò le spalle con un braccio e portò l'altra mano tra i miei capelli sciolti. Lentamente gli circondai il collo con le dita e alzai la testa. I nostri corpi a contatto, sentivo il calore della sua pelle, sentivo la sicurezza che emanava la sua stazza, i suoi occhi. Il mio povero cuore non sapeva cosa sentire per quell'uomo. Se potevo concedermi un secondo di pace tra le sue braccia mentre mia nipote giaceva inerme a pochi passi da noi.

Non meriti la pace.

Li hai delusi.

Tutti loro.

<<Mi dispiace>>, lasciai che quelle parole si depositassero tra noi, non sapevo nemmeno io a chi le avevo rivolte davvero. Chinò il viso su di me, fui costretta a inarcare la schiena. I nostri nasi si sfiorarono, il suo respiro divenne il mio. Le sue labbra si tesero. <<Ti porto a casa>>, dichiarò, scossi la testa. <<Non posso>>.

<<Tess>>.

Spalancai gli occhi. Era da tanto che non pronunciava il mio nome, mi era mancato. Mi era mancato sentirglielo dire come un ricordo sussurrato, come quattro lettere che significavano tutto per lui.

Significavano ancora tutto per lui.

Io ero ancora nel suo cuore.

MI sporsi, un movimento appena accennato, lui fece lo stesso. Parlai sfiorandogli le labbra, percependo il suo sapore. <<Non posso abbandonarla. L'ho già fatto una volta>>.

<<Resto con te>>.

Il mio cuore era impazzito.

Quell'uomo.

Quell'uomo meraviglioso.

<<Non devi>>, mi costrinsi a dire.

<<Non devo>>, ripetè, con la mano sulla mia schiena, a rafforzare la presa <<Lo voglio. Permettimi di starti accanto. Non voglio fare un passo indietro. L'ho già fatto una volta>>.

<<Perchè?>>, sussurrai con gli occhi lucidi.

Fernando non rispose, lentamente mi spinse verso la brandina che le infermiere avevano portato per me. Dormivo in quella stanza tutte le notti, poi la mattina Juanita mi dava il cambio. Tornavo al pomeriggio e rimanevo ancora la sera.

Mi sollevò in braccio, mi aggrappai al suo collo e quando mi depositò su quel letto improvvisato, non lo lasciai andare. Non più. Avvicinai i nostri visi e feci collidere le nostre bocche. Mi beai del suo sapore, delle sue labbra morbide e decise. Durò un secondo, ma significò tutto.

Lo guardai negli occhi, ansante.

Avevo così tante cose da dirgli...

Allontanò le mie mani e ne baciò il palmo, prima di scostarsi e sedersi sulla sedia al mio fianco.

Nessuno dei due disse nulla.

Non ce n'era bisogno.




Così Lontani, Così ViciniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora