1.PILOT

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parte prima.

Emma.


Mia madre era una donna straordinaria. Dico davvero. Era il tipo di donna che tutti adoravano e rispettavano allo stesso tempo. Era dolce e sensibile, ma anche decisa e severa. E poi era straordinariamente bella, una di quelle bellezze genuine che il tempo e i suoi segni non avevano offuscato. Alta, slanciata, sensuale e femminile anche con la tuta da ginnastica e le infradito d'estate. Era la donna perfetta, ma non era stata risparmiata dalla sfiga e le sue ramificazioni peggiori: l'amore malato. Il primo uomo della sua vita aveva vent'anni in più di lei e un'ossessiva possessione nei suoi confronti. Lei accettava e perdonava ogni suo peccato, coprendosi gli occhi con l'amore che la legava a lui. Stettero insieme per 8 anni, poi lui la lasciò incinta per una nuova ossessione, più giovane e ingenua. Non conobbi mai il mio padre biologico, ma quell'amore malato fu rimpiazzato da un altro. Lui era un uomo affascinante e divertente, mi piaceva tanto. Abitavamo in un appartamento piccolissimo nella periferia di Manchester, non avevamo molti soldi ma eravamo felici: io e la mamma ballavamo scalze sul tappeto della sala, mentre lui cantava suonando la chitarra le canzoni di Jimmy Hendrix. Eravamo felici e così anche dopo la nascita di Lizzie, la mia sorellina. Avevo sette anni quando lui mi picchiò per la prima volta ubriaco, otto quando lo vidi steso incosciente in cortile. Avevo portato Lizzie in cameretta, mettendo Suspicious Minds di Elvis al massimo sullo stereo, mentre mamma aspettava che l'ambulanza lo venisse a prendere. Ricordo che non avevo mai visto mamma piangere così tanto. «Vostro padre è tanto malato» disse il giorno dopo, sdraiate insieme sul lettone, «Ma ci ama tanto e quando tornerà starà meglio.» Cinque anni dopo sedevo nel sedile davanti tenendo stretta la mano di Lizzie e l'altra mano salda sulla coscia di mamma alla guida, mentre ci lasciavamo una vita ed un altro mostro alle spalle. Gli anni successivi furono i migliori. Vivevamo in un bilocale a Chinatown, sopra un ristorante giapponese che ci lasciava mangiare a sbaffo di notte. Eravamo solo noi tre ed eravamo felici, davvero felici. Anche quando Lizzie aveva le sue crisi isteriche principalmente dovute a quella scuola tanto fighetta che non faceva altro che ricordarle il nostro basso ceto sociale. Io ero sempre stata diversa da Lizzie e un po' invidiavo quella sua spensierata capacità di socializzare con tutti, allo stesso modo mi preoccupava: Lizzie era come la mamma. Io no. Io non mi fidavo di nessuno tranne che di mia madre e mia sorella, odiavo parlare con le altre persone e non riuscivo ad approcciarmi con i ragazzi senza avere paura dell'amore malato. Tra i quattordici e i sedici anni ebbi seri dubbi sulla mia sessualità, ma l'ipotesi dell'asessualità svanì con i primi impulsi ormonali verso un compagno di classe. Ero talmente tanto in conflitto con me stessa che mi rifiutai categoricamente di cedere a i miei desideri sessuali, fu mamma a raccogliere tutta la mia rabbia, tramutandola in amore. «Non odiare quelle emozioni così forti fiorellino mio, falle tue. Amale e amati. Sei splendida e ogni cosa che esce da te, dalla tua testa e dal tuo cuore è splendida» disse una sera, accoccolandosi sotto le coperte con me, mentre Lizzie era ad uno dei pigiama party delle sue amiche. Amavo mia madre era tutto per me.

Al suo funerale non piansi una lacrima. Indossavo un abito nero sformato, lungo abbastanza per nascondere le cosce tozze e i fianchi pronunciati e un paio di ballerine nere. Mia sorella, al contrario, non smise di piangere dalla cerimonia a prima di addormentarsi, nel suo letto a baldacchino della villa del nostro nuovo patrigno. Lui era un uomo buono, era stato il dottore della mamma appena scoperto il tumore nel 2014 e l'aveva salvata, oltre ad innamorarsi di lei. Aveva preso tutto il pacchetto, sposandoci in una chiesetta fuori città, assicurando a Lizzie un futuro accademico di prestigio e a me la possibilità di un futuro tranquillo almeno fino alla morte della mamma, cinque anni dopo. Matthew non era un uomo affettuoso né di molte parole, ma sentivo che ci voleva bene e che ci potevamo fidare di lui. Era ciò di più paterno che avessimo mai avuto, una figura maschile sana e salda che ci teneva legate ad un senso di famiglia, motivo per il quale non eravamo riuscite ancora ad andare via da quella casa nell'Hampstead Village tanto distante dalla nostra umile realtà. A parte durante la ristrutturazione. E questo ci portava proprio ad oggi: 20 novembre 2021, Inglewood, California.

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