CAPITOLO XV

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I giorni passarono piuttosto a rilento e, nell'ultimo periodo, io e la professoressa di Francesca non ci eravamo incontrate più né a scuola né fuori scuola. Non era cambiato niente nel nostro rapporto: si comportava sempre allo stesso modo sia in classe che con me in particolare e, proprio per questo, non capivo come mai non mi avesse chiesto niente. Ero certa che fosse al corrente che avessi incontrato la psicologa della scuola e, soprattutto dopo l'ultimo avvenimento che mi aveva condotta nell'ufficio della preside, ero stranita che non mi avesse chiesto più niente: neanche un "come stai" di sfuggita. Niente. Inutile dire che ciò mi provocava più tristezza del solito ma cercai di andare avanti e mantenere una certa calma, soprattutto a scuola: avevo già fatto abbastanza. Un giorno un nostro insegnante si assentò per un problema di famiglia e la sua ora rimase scoperta perché nessuno era disponibile per effettuare una sostituzione, neanche un insegnante di un'altra sezione. Certi di dover restare soli, la mia classe iniziò a fare casino nonostante alcuni di noi cercassero di calmare gli animi perché timorosi che la preside ci avesse potuti sentire e, quando si trattava di lei, le conseguenze potevano essere catastrofiche. In men che non si dica i nostri incubi si realizzarono: la preside varcò la soglia della nostra classe.

«Buongiorno ragazzi» disse entrando e accomodandosi direttamente dietro la cattedra.
«Buongiorno preside» rispondemmo in coro alzandoci in piedi per salutarla.
«Speravo faceste silenzio ma, visto che non ne siete capaci, sarò io a sostituire il vostro insegnante. Non voglio sentire inutili chiacchiericci da bar ma, al massimo, potete ripassare per le ore successive o svolgere dei compiti che vi sono stati assegnati. Potete farlo anche insieme ma mantenendo ordine e non esagerando».

«Grazie» rispondemmo. Era una donna che ci infondeva timore ma, grazie a lei, la nostra scuola funzionava bene. La prima impressione era quella di una persona dura, e lo era quando si trattava del lavoro, ma sapeva essere anche buona e comprensiva anche se non lo dimostrava molto spesso. Mi aveva vista crescere perché era un'amica di alcuni miei parenti ed era capitato, in più occasioni, di ritrovarci invitate agli stessi eventi. Io e Michela ci eravamo avvicinate per ripassare alcune cose per le ore successive e avevamo appena tirato fuori i libri dallo zaino, quando:

«Chiara, puoi uscire un attimo?» mi chiese la preside.

«Io? Ce..certo» risposi tentennante.

"Eccoci: davanti a tutti, di nuovo!"

«Come stai?» mi domandò sorprendendomi perché era una domanda che da lei non mi sarei mai aspettata.

«Io...sto...bene»
«No, dico davvero...come stai dopo quello che è successo?»
«Meglio, grazie»
«Spero che con la psicologa sia andata bene. Non le ho detto niente di quello che è successo l'altra volta però spero possa dirglielo tu e farti aiutare». Era gentile e comprensiva come mai l'avevo vista.
«Non è andata gran che però grazie per non aver detto niente»
«Vorrei sia tu a farlo, so che puoi farcela e che puoi stare meglio»
«Vorrei anche io stare meglio» le dissi rilassandomi un po'.
«La vita è bella, Chiara. Anche se a volte non lo capiamo però bisogna aver fiducia e so che in questo momento ti è difficile ma devi crederci. Andrà tutto bene».

Non sapevo se essere infastidita da quelle parole perché mi sembravano frasi fatte che si ripetono in certe occasioni, un po' come un disco rotto che non smette di ripetere le stesse cose, o se essere onorata che avesse tolto per un attimo la maschera della preside autoritaria per parlarmi col cuore.

«Grazie, lo spero» risposi cercando di far prevalere la parte in cui mi sentivo onorata. Dopo quella breve chiacchierata rientrammo in classe e cercai di tornare al ripasso anche se con molta fatica perché mi aveva colta di sorpresa e non riuscivo a capire ancora come dovessi reagire. Il giorno successivo Michela venne da me correndo:

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