CAPITOLO XXIII

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"Una volta le dissi che non si smette mai di conoscere veramente una persona e lei ci rimase male ma, vede? Ho ragione."

Questa frase risuonò continuamente nella mia testa. Avevo paura di aver peggiorato le cose e che adesso non avrei avuto neanche la minima speranza di recuperare il nostro rapporto. Il mio amore per lei continuava ad esistere e a persistere e mi mancava il rapporto che avevamo costruito con fatica, confessioni e affetto reciproco. All'inizio mi sembrò tutto così sbagliato ma, col tempo, capii che per i sentimenti non esiste qualcosa di giusto e sbagliato: è tutto soggettivo. Incominciai a provare dei sentimenti per lei la prima volta che vidi i suoi occhi, nonostante non riuscissi ad ammetterlo neanche a me stessa, e da quel giorno cambiò la mia vita. Riuscii a trovare una persona con la quale poter parlare dei miei pensieri più reconditi e cupi senza paura di essere giudicata perché lei mi ascoltava e mi abbracciava con gli occhi per farmi sentire al sicuro e con la quale parlare senza freni, senza limiti. Mi innamorai della persona più sbagliata che potesse esistere perché tutto di lei era troppo lontano da me sotto quasi tutti i punti di vista ed ero consapevole che non ci sarebbe potuto essere niente tra di noi. In alcuni momenti pensai anche che quel bacio fosse stato soltanto un momento di confusione per lei e che mi avesse semplicemente lasciato fare ma di questo non ero certa perché ricordavo ancora il mio avvicinarsi lentamente alle sue labbra ed il sapore delle stesse. Io lo sapevo che i miei sentimenti fossero a senso unico e non pretendevo niente da lei se non quello di lasciarmi la libertà di amarla. Non mi era possibile fare tutto ciò che avrei desiderato per dimostrarle il mio amore e lo sapevo: non potevo leggerle tutte le poesie che avevo scritto per lei e tutto ciò mi faceva sentire in trappola. Inaspettatamente un giorno, dopo una sua lezione, mi chiese se potessi uscire fuori un attimo e mi trovai, tremante, faccia a faccia con lei. Quel corridoio sembrava non appartenerci più perché ormai la sentivo sempre più lontana da me. Sembravamo due che un tempo erano state "qualcosa" ma che adesso, una di fronte all'altra, non eravamo in grado di superare l'imbarazzo creatosi. Nell'attesa che qualcuna delle due dicesse qualcosa, continuai a guardarla con occhi sognanti perché in cuor mio speravo sempre di recuperare quel rapporto che tanto mi aveva tenuta in vita e che adesso mi stava distruggendo. Lei mi sorrise.

«Tutto bene?» mi chiese.

Mi fermai e iniziai a pensare a così tante cose da non riuscire ad afferrarne nessuna: i nostri abbracci, le mie mani tremanti trattenute dalle sue, la sua macchina luogo di conversazioni segrete, le spalle che hanno assorbito la maggior parte delle mie lacrime ed i suoi occhi che mi hanno sostenuta quando non poteva abbracciarmi. Ritornai alla realtà soltanto per un attimo e la vidi, in silenzio, aspettare una risposta. Aprii le labbra ma mi mancò il respiro e iniziai a tremare sperando che lei non lo notasse. Avrei voluto urlarle e vomitarle tutto ciò che avevo dentro.

"Tu te ne sei andata ma io sono rimasta. Credi che io stia bene? Mi sento un corpo senza anima. Tu sei lì, tranquilla e beata, che mi sorridi mentre io non riesco neanche a respirare perché ti guardo e mi viene un nodo alla gola. Vorrei abbracciarti e sentirti vicina, di nuovo, ma questo tu neanche lo capisci. Continuo a pensare che sia colpa mia ma tu non fai nulla per smentirlo. Parlami e spiegami: ti prego!"

Chiusi gli occhi per un attimo, presi un bel respiro e dissi:

«Bene, sto bene». E gli occhi si riempirono di lacrime. Non ebbi neanche il coraggio di guardarla negli occhi perché non volevo mi vedesse così distrutta. Mi girai dalla parte opposta e una lacrima mi scivolò dall'occhio destro.

"Tu resta lì ma io devo andare" pensai mentre percorrevo il corridoio. Quel momento segnò una rottura definitiva tra me e lei sebbene fosse soltanto apparente poiché ormai lei faceva parte anche delle mie ossa. Iniziai a rifugiarmi nell'alcol per cercare di dimenticare la sofferenza che mi perseguitava ma essa non faceva altro che seguirmi e, ad ogni sorso, si ampliava. Trascorsi i mesi che mi separavano dalla fine del quarto anno tra scampagnate e uscite serali con alcuni amici che si stupirono della mia voglia improvvisa di fare "pazzie" e non riuscirono a comprendere cosa potesse essermi successo. I miei appuntamenti dalla psicologa iniziarono ad essere meno frequenti perché i pensieri cupi che mi tirarono via la maggior parte delle energie, erano quasi svaniti. Incominciai a farmi delle paranoie, però, che non riuscivo a fermare né a zittire. Le parlai della mia insegnante e dei sentimenti che provassi per lei raccontandole la maggior parte di quello che fosse successo, bacio compreso, e mi convinsi che ci fosse qualche cosa che non andasse in me perché continuai a pensare che lei potesse lontanamente provare qualcosa. La mia mente non fece altro che ripercorrere i momenti trascorsi assieme e riuscii a vedere soltanto una persona confusa che accolse per aiutarmi ma che aveva avuto sempre atteggiamenti ambigui nei miei confronti. Le diedi un bacio guardandola negli occhi, dopo averle detto ciò che avrei fatto, e lei non mi fermò né mi disse niente: lasciò che le mie labbra si poggiassero sulle sue. Quel bacio per me fu uno dei momenti più belli della mia vita ma, nello stesso tempo, mi segnò per sempre. La psicologa non fece che giustificare la mia professoressa dicendomi che probabilmente si fosse fatta prendere dal panico o che l'avrebbe fatto per non ferirmi ma a me sembrarono soltanto un mucchio di parole buttate lì per caso, per sbaglio. Non riuscii più a pensare lucidamente e, anche Michela, iniziò ad accorgersene.

«Chiara, forse ti stai fissando un po' troppo»
«Io non riesco a capire come sia possibile» dissi io senza neanche ascoltare le sue parole.
«Chiara, io sono d'accordo con te. Penso ci sia qualcosa dietro tutti questi gesti che lei ha fatto ma non sapremo mai cosa perché ha deciso di tacere»
«Sì ma non si possono trattare così le persone: sembro più adulta io di lei!» sbottai.
«E sono d'accordo anche su questo ma non puoi riempirti la testa di questi pensieri e non andare avanti con la tua vita. C'è altro oltre a tutto questo»
«Nella mia vita, nei miei pensieri, nelle mie ossa...c'è soltanto lei»
«Chiara, io provo a capirti ma penso tu debba riflettere un po' su ciò che dici e su come lo dici»
«Non sto dicendo niente di che! Ce l'avete tutti con me, non mi capite!» scoppiai infine.

Neanche Michela riusciva a farmi ragionare e, ripensando a quel periodo, sembravo davvero irragionevole e disperata. La fine della scuola e l'inizio delle vacanze estive segnarono per me un momento di ripresa poiché, riuscendo a staccare da studio e preoccupazioni per la scuola, iniziai a riflettere su tutto ritornando in me e le mie paranoie si ridimensionarono. Il periodo estivo restava comunque un momento in cui non avevo la possibilità di vederla, motivo per cui cercai di riempirmi le giornate a più non posso per evitare di pensare. Non pensare a lei, però, mi fu impossibile. Così, dopo più di un mese dall'inizio delle vacanze, cercai di racimolare quanto più coraggio possibile e la chiamai.

«Pronto?» rispose lei dopo un paio di squilli.
«Salve professoressa, sono Chiara» dissi tentennante. Avvertii la sensazione di aver fatto un errore ad averla chiamata e non mi sbagliai affatto.

«Ciao Chiara, dimmi» mi disse e, già dal suo tono, capii tutto.
«Le volevo chiedere se, per caso, le andasse di vederci. È passato un po' di tempo dall'ultima volta e mi faceva piacere magari farci una passeggiata, due chiacchiere» risposi.
«No, Chiara. Mi è impossibile perché ho troppe cose da fare»
«Ah, d'accordo. Buona estate allora»
«Anche a te» concluse.
Fine della conversazione e cuore a pezzi.

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