1.

5.2K 209 202
                                    


𝐅𝐀𝐒𝐄 𝐔𝐍𝐎

"Non si è mai pronti per quello che ci aspetta"
- Reese Whiterspoon.

𖥸

𝓔ro abituata a non avere un'abitudine. Detta così suonava anche male, ma era la verità. Nessuna abitudine se non l'abitudine stessa di non abituarsi mai, a niente e nessuno. A nessun luogo, a nessuna persona. La prima volta lo avevo capito a dieci anni, quando mia nonna materna era morta relativamente presto e io ero partita con il nonno, trasferendomi a Manchester con lui per non lasciarlo più da solo. Avevo lasciato i miei amichetti, i miei genitori, la mia quotidianità e la mia scuola per una vita più piena, in un luogo da 553.230 abitanti contro le 43.252 della mia città natale. Avevo ricominciato, mi ero fatta nuovi amici, nuovi obiettivi, nuove routine, ma non mi ero mai abituata. Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato.

Quale giorno? Ricominciare un'altra volta. Mio nonno era venuto a mancare, raggiungendo sua moglie, e per me era iniziato un altro trasloco, tra un vuoto nello stomaco e una sensazione di nostalgia, portandomi solo l'essenziale. Una valigia con qualche vestito, il mio immancabile pc e me stessa.

Oh e la mia passione più grande ovviamente. L'unica nota positiva che ho saputo trovare nel luogo in cui sono nata, una città molto famosa ma poco abitata. I turisti vanno e vengono, sono pochi e rari coloro che restano. O che tornano.

A me interessava solo trovare pace, ma soprattutto una sistemazione fissa, perché la testa, con tutti quei cambiamenti, non accennava a fermarsi. Mi sarei laureata in criminologia e poi sarei partita di nuovo, trovando lavoro in qualunque altro luogo non fosse qui, in un buco in cui sarei potuta rimanere intrappolata.

Superai i controlli dell'aeroporto sbuffando e tirandomi dietro la valigia, che pesava abbastanza visto che avevo dovuto mettere tutto lì. Con lo sguardo, una volta arrivata fuori, cercai mio padre.

Il che non era difficile, considerando la sua inspiegabile giovinezza, con una barba scura a malapena accennata, senza nessuno spruzzo di bianco, il suo vestiario altrettanto moderno, i suoi capelli ancora castano scuro come i miei, nascosti sotto molteplici cappellini, e i suoi perenni occhiali da sole neri che non lasciava mai. Li usava per colpa della luce, che infastidiva i suoi occhi sensibili che lui stesso reputava "inutili" perché non erano neanche in grado di svolgere la loro funzione primaria: vedere.

Già. Mio padre era cieco, ma non dalla nascita. Lo era diventato dopo aver conosciuto mia madre, quando avevo qualche anno, a causa della neuropatia ottica di Leber, una patologia che portava un'improvvisa perdita della vista. Da piccola gli avevo promesso di diventare un medico solo per trovarne una cura, ma nel processo di crescita qualcosa era andato a monte evidentemente.

Ora studiavo per diventare una detective. Non male, no?

«Melody». Mi voltai verso una voce allegra ma autoritaria. «Sono qui. E tu sei qui. Che coincidenza straordinaria, vero?».

Alzai gli occhi al cielo con un sorriso e lo abbracciai. Da mio padre avevo preso molte cose, la prima era la spiccata ironia perenne, anche nelle situazioni poco divertenti. «Parti anche tu, vero? Stessa direzione da cui io sono tornata, scommetto». Ironizzai.

«L'inferno?». Mostrò i denti bianchi e diritti attraverso un sorrisetto molto simile al mio.

Lo colpii con un colpo di anca. «Esatto, ti saluta Lucifero».

AnankeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora