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𖥸

𝓛asciare l'ospedale quella mattina era stata una benedizione, erano tutti estremamente scorbutici e poco empatici. Quasi rimpiangevo l'infermiere che ogni tanto se ne usciva con frasi in una lingua a me sconosciuta e che non si era più fatto vedere. 

Un'altra cosa spiacevole era che il mio telefono era totalmente scarico, mia madre non si era fatta vedere perché probabilmente era in viaggio di lavoro come sempre ed ero delusa dal fatto che non avesse cercato di rintracciarmi in nessun modo. Era tutto così strano da quando avevo messo piede a Salem. 

Adesso camminavo per le vie di una città in cui ero stata più di 10 anni fa, completamente da sola e con addosso un pantalone della tuta di almeno tre taglie in più, una maglia semplice bianca e un cappellino da baseball del medesimo colore. Qualcuno mi aveva fatto un'opera di carità e li aveva lasciati nella sedia della mia stanza d'ospedale. Senza di essi non avrei saputo cosa mettere sulla pelle, visto che i miei vecchi vestiti erano stati probabilmente e quasi interamente macchiati dal mio sangue. 

Mi sentii improvvisamente osservata. Un formicolio mi partì dalla nuca e scese giù, mi strisciò sulla spina dorsale e rimase collocato lì, ma lo ignorai. Mi capitava da quando ne avevo memoria di sentirmi sempre osservata e controllata, anche se poi guardandomi attorno non c'era mai nessuno. 

Oggi qualcuno c'era però. E lo vidi con la coda dell'occhio, alle mie spalle, che non accennava a superarmi malgrado la mia lenta andatura e questo non era un buon segno. Mi fermai per fingere di dovermi allacciare le scarpe e sperai che mi superasse, che non si arrestasse anche lui, ma ovviamente non fece nulla di quello che speravo. 

Anzi si avvicinò, e di lui potei vedere solo il paio di mocassini neri lucidi che indossava, e mi parlò. «Ciao, bocconcino. Hai bisogno di aiuto?». Mormorò e mi sembrò quasi di vederlo ghignare. 

La rabbia mi montò dentro e, come al solito, la mia impulsività mi portò a rispondere nel modo peggiore che avessi potuto fare. Ci insegnavano sempre, all'università, che la cosa più furba da fare non era istigare il predatore con risposte ironiche o provocatorie, ma piuttosto mostrare indifferenza e calma al solo fine di non attizzare il fuoco che poi avrebbe affascinato il piromane. «No, grazie. Specialmente da te e dal tuo viscido-». 

«Sparisci». Sibilò una terza persona.

Spostai lo sguardo sulla voce nuova e trovai un paio di occhi grigi su un volto deformato dalla rabbia. Il camice verde con cui lo avevo incontrato la prima volta era stato sostituito da una tuta nera e una maglia del medesimo colore, con un cappellino simile al mio e la scritta "hell" rossa su di esso. 

«Laat!». Il viscido sorrise e si inchinò ironicamente al mio cospetto, poi si allontanò. Ma non senza prima aver detto un'altra cosa nella stessa lingua di prima, che riconobbi simile al latino. «Maelart».

L'infermiere lo fissò finché non fu abbastanza lontano e poi mi dedicò uno sguardo di rimprovero. «Non dovresti camminare da sola qui. Non è sicuro».

«Pff, non pensavo di essere a Tijuana». Alzai gli occhi al cielo e tornai a camminare. 

Mi affiancò. «Anche se non è la città con il più alto tasso di criminalità, questo non significa che sia così tranquilla, piccola idiota».

«Disse il grande idiota». Lo guardai male. 

Ghignò. «Eppure non sembri una tipetta così aggressiva, con quei capelli castani, gli occhi grandi e scuri e il naso slanciato ma con la punta arrotondata. Forse le guance scavate e la pelle olivastra ti donano la faccia da stronza-». Si interruppe perché lo colpì al petto con un pugno e, dopo avermi osservato meravigliato, scoppiò a ridere. 

AnankeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora