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𖥸

𝓜i ero decisa, dopo lunghe liste di pro e contro, ad accettare l'invito-che tanto invito non era stato- di Cayman: usare casa sua per poter studiare e dare gli esami online. 

La profiler che era in me continuava a stare perennemente sull'attenti, rigida come un tronco e diffidente, ma la ragazza normale che era in me si sentiva al sicuro con lui come mai le era successo prima. Ed era una cosa inesplicabile per me. 

Per tutta la vita mi ero sentita in obbligo di dovermi difendere, di alzare i muri di cemento che avevo costruito attorno al mio cuore perché tutti prima o dopo mi avevano abbandonato, per loro scelta o meno, famiglia, amici o amanti. Per anni avevo lottato contro la solitudine e quando avevo capito che non era lei quella a ferirmi, avevo imparato ad accoglierla e a stare bene con la sua trasparente compagnia. Avevo imparato a guardare in un paio di occhi diversi dai miei e a non aspettarmi più di rivederli l'indomani, a scacciare le viscide mani che tentavano di sfiorarmi il cuore e a guardarmi le spalle anche quando dietro avevo solo uno specchio. 

«Dove sei andata, qetësi?». 

Spostai lo sguardo dall'esterno del finestrino oscurato a lui, che continuava a spostare il suo fra me e la strada. Oggi sembrava più nervoso del solito, picchiettando continuamente l'indice sulla pelle del volante o evitando il mio sguardo in ogni modo. 

«Dove vuoi che vada? Non è che posso aprire lo sportello e buttami giù». Borbottai, stringendo le maniche del maglione e tirandole verso le mani per nascondere le fasciature della ferita di qualche giorno prima. Ormai era uno squarcio vero e proprio che mi tagliava il centro della pelle e ogni tanto, ancora, perdeva del sangue. 

Motivo per cui la lavavo spesso e cambiavo spesso le garze, ma era tutto più difficile per una come me. Specialmente perché appena sfioravo la parte lesa sobbalzavo e il calore che emanava non era rassicurante, ma piuttosto che tornare in quell'ospedale avrei preferito morire. 

«Con la testa, qetësi. Con la testa si va ovunque in ogni momento e non sono mai viaggi di piacere». 

Cercai una scusa plausibile. «Pensavo al fatto che il tuo nervosismo è sospetto e che probabilmente è legato al-».

«...al fatto che sono uno stalker che vuole rapirti e ucciderti». 

Battei le palpebre e sorrisi. «Esatto!».

«Siamo arrivati, scricciolo perennemente scettico». Scosse la testa e scese dalla jeep, indossando uno dei mille cappelli con la visiera che possedeva. Si mise entrambe le mani dentro le tasche della tuta e mi osservò da fuori. «Se pensi che io venga ad aprirti la portiera ti sbagli di grosso! Non sono un gentiluomo».

Aprii la portiera e scesi in autonomia, atterrando sull'asfalto con un piccolo tonfo. Casa sua era davvero quasi alla fine della città, con alle spalle solo grandi alberi, e tutte le abitazioni vicine erano simili alla sua: nascosta da un cancello in ferro, con un cortile curato al suo interno e il cognome sul campanello. 

«E io non sono il tipo di donna che si aspetta gesti del genere dagli uomini. Ho due gambe e due braccia che funzionano benissimo».

Nascose un sorrisino mordendosi le labbra e mi accompagnò dentro, aprendo il maestoso portone di casa con fare teatrale. Mi lasciò passare avanti e, quando tentai di dire qualcosa sulla spada enorme attaccata al lato della porta, mi poggiò l'indice sulle labbra e mi intimò di fare silenzio. 

AnankeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora