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𖥸

𝓜i svegliai di soprassalto, tastando il braccio attorno alla mia vita, ma mi tranquillizzai quando ricordai la sera precedente: avevamo mangiato a letto la pizza, scherzando come dei cretini, e poi ci eravamo addormentati a pancia piena l'uno sopra l'altro. Adesso Cayman mi stringeva da dietro, con la faccia posata sui miei capelli, e non potei fare a meno di pensare alle parole delle sue lettere.

Con un velo di tristezza addosso mi tirai su, spostando con molta delicatezza il suo braccio per non svegliarlo, e uscii nel balcone della sua camera da letto. Poggiai i gomiti alla ringhiera e mi persi in un sospiro a metà fra il frustrato e il triste.

Abbassai lo sguardo. Quanto dolore si poteva provare prima di spezzarsi completamente?

Mi sembrava di averne già vissuto una quantità enorme, eppure nel leggere le parole di Cayman in quelle lettere mi ero resa conto di quale fosse il reale limite di sopportazione. Quelle parole scritte a mano trasudavano una solitudine intensa e dolorosa, anche mentre parlava dei suoi "amici". Anche in mezzo agli altri, lui sembrava essere totalmente solo, proprio come me.

Eppure mi sembrava che fossimo entrambi totalmente diversi, a due sponde completamente distanti l'uno dall'altra.

Mio padre mi diceva sempre che avevo la testa più dura del metallo, che ero testarda, impulsiva e troppo curiosa, che prendevo tutto troppo a cuore. Poi mi sorrideva e diceva che però erano proprio quei miei difetti a rendermi Melody e non un'altra persona qualsiasi del mondo. Aveva combattuto a lungo per insegnarmi che i difetti sono ciò che ci distingue e ciò per cui veniamo ricordati.

Due braccia, oltre le mie, si posarono sulla ringhiera e nella mia visione periferica rientrò la frase tatuata sul petto di Cayman.

«Pensieri?».

Annuii. «Pensieri».

Non parlò molto, forse sapeva semplicemente che c'era poco da dire e che a volte non serviva dire proprio nulla fra due persone, che a volte per sfogarsi bastava stare in silenzio uno a fianco all'altro. Ma io avevo bisogno di vuotare il sacco per una volta, con qualcuno. Una sola volta. Una.

Mi guardai il tatuaggio sulla mano. «I miei due migliori amici, Dagon e Verity, mi chiamano wrong».

«Strano soprannome...». Mi guardò di sottecchi.

Sorrisi, ma non esattamente in modo positivo. «Lo fanno perché sono solita sbagliare sempre tutto, dalle cose piccole alle scelte più importanti. Sbaglio ordinazioni, sbaglio le taglie dei miei vestiti, sbagliavo aula ogni volta che andavo all'università, in discoteca scambiavo sempre Dagon con qualche altro ragazzo oppure andavo nel bagno dei ragazzi invece di quello delle ragazze». Lo sentii ridacchiare.

«Ho fatto tanti sbagli nella mia vita, il primo è stato trasferirmi con mio nonno, non per lui ma perché così facendo ho perso tanto tempo dietro ai suoi ideali invece che ai miei. Non ho fatto amicizia con nessuno in quel quartiere perché mio nonno non apprezzava le tecniche moderne di educazione dei vicini, ha scelto per me il liceo da frequentare e mi ha fatto fare i corsi di lingue invece di quelli chimici perché secondo lui era più utile che fare "pastrocchi" con le miscele. Ero così sola, Cayman, che quando il pericolo si è presentato alla mia porta non l'ho riconosciuto». Mi morsi il labbro e lui si irrigidì.

Sospirai. «Un giorno andai nella mia solita caffetteria vicino al liceo e trovai un nuovo commesso alla cassa. Iniziò ad attaccare bottone con me e io ero così felice di avere qualcuno con cui parlare che non fosse mio nonno, che non raccontai nulla e continuai ad avere quelle piccole conversazioni con lui. Iniziò a venirmi a prendere a scuola, anche se non avevo mai detto quale fosse il mio liceo, a sapere perfettamente cosa prendessi a colazione e in che palestra andassi, tanto da ritrovarmelo lì. Era... troppo, ma io non me ne rendevo conto, offuscata dal fatto che a qualcuno piacesse stare con me malgrado fossi più in carne delle altre e sempre da sola».

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