✨Somigliava ad un addio✨

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Dal giorno in cui il padre dei miei fratelli era tornato a bussare alla nostra porta, erano passati altri molteplici giorni e nonostante le speranze di non rivederlo più fossero ardenti dentro di me, ero piuttosto certo che prima o poi sarebbe tornato a riscuotere i propri figli come ricompensa. 

Da quanto avevo desunto era in un momento glorioso della propria vita e probabilmente l'adrenalina scaturita dall'esaltazione del momento lo aveva spinto a ricordarsi di avere due figli, come una sorta di capriccio che prima o poi gli sarebbe passato. 

Avevo valutato molte soluzioni, una delle quali telefonare a mia madre e convincerla almeno a fare una cosa per noi, convincerla a mediare una soluzione con il padre dei miei fratelli. Ma sapevo che probabilmente mia madre non avrebbe dato ascolto alle nostre esigenze e quindi preferii non prendere in considerazione  la soluzione, ma preferii piuttosto riflettere ancora. Prendermi del tempo.

Intanto cercavo di non prestare troppa attenzione alle onde che si erano infrante sulla mia vita: la paura di perdere i miei fratelli, la paura che loro potessero soffrire e la paura di perdere Demet.

Così mi persi a svolgere alcuni lavori lungo il perimetro della casa. Sistemai una vecchia porta cigolante e delle vecchie tegole instabili. Poi andai a trovare il mio migliore amico e lì ebbi un'idea.

Scambiammo molte battute poi ad un tratto lui mi rivelò un dettaglio che parve irrilevante e invece fu un vero e proprio spunto.

"Lo sai che la professoressa di mio nipote ha vinto un milione alla lotteria ed ha abbandonato il lavoro senza pensarci due volte!"

Scoppiai a ridere e risposi.

"Ci credo ... anche io avrei abbandonato tutto e sarei scappato: avrei comprato un'isola e vissuto felicemente!"

Scoppiò a ridere lui questa volta e quel silenzio breve mi diede modo di riflettere.

"Stai parlando della scuola di inglese? La scuola privata?" aggiunsi incerto.

"Sì, quella stupida scuola che chiede ogni mese fior di quattrini a mia sorella pur di insegnare la lingua inglese a mio nipote!" disse in modo scettico.

"Sei un genio!" dissi e lo piantai in asso.

Presi l'auto e guidai fino alla scuola privata. Che era a qualche chilometro dal confine della città.

Provai a parlare con il preside, sfruttando alcune conoscenze in comune e riuscii ad ottenere un incontro breve. Gli parlai di Demet e gli dissi che probabilmente sarebbe stata disposta ad accettare quell' impiego libero. Lui parve sin da subito entusiasta, ma ponderato: voleva conoscere i requisiti della mia fidanzata. Così le procurai un appuntamento e uscii da quell'ufficio con un sorriso stampato in viso e una possibilità. La possibilità di avere ancora Demet in città.

Quando tornai a casa, trovai demet in cucina e i miei fratelli in giardino. 

Mi sentii sovrastato da un'emozione troppo forte e non fui in grado di resistere un altro istante. La baciai, in piedi nel bel mezzo del salotto, senza esitare. La baciai, togliendole il respiro e portando entrambi in un'altra dimensione. Quando mi distaccai, lei mi scrutò soddisfatta e mi chiese a cosa fosse dovuto. Ed io non risposi. Mi limitai ad apparecchiare la tavola. Cenammo come ogni sera, ridemmo come ogni sera, e poi i miei fratelli andarono a dormire e quando fummo soli, le raccontai ciò che era accaduto.

Le dissi dell'impiego nella scuola di inglese e le dissi che avevo parlato con il preside procurandole un colloquio. Lei scosse il capo, non rispose e con occhi vacui si avvicinò a me.

 Provai a decifrare la sua espressione, ma non riuscii a capire e quando mi baciò, nemmeno provai più a farlo, non mi importava: non volevo decifrare nulla, volevo perdermi in quel bacio e magari...

Facemmo l'amore in un modo malinconico. Le sue mani mi sfioravano come se non fosse pronta ad allontanarsi da me, come se quella fosse l'ultima volta. Ed io la baciai come se non riuscissi a concepire più una vita senza di lei, e con la paura di chi in realtà teme che non possa essere per sempre. La baciai e facemmo ancora l'amore, in modo lento, in modo tormentato.

Dopo un paio d'ore, Demet era distesa su di me, ed eravamo entrambi avvolti dal silenzio fin quando non fu lei a prendere la parola: "Non voglio deluderti, so che mi vuoi qui con te. Ma io sono venuta qui perché sento di avere una missione, e forse esagero, ma per me l'insegnamento è una missione. Voglio aiutare le persone, voglio offrire ai bambini un' alternativa valida per un futuro radioso e non voglio lavorare in una scuola privata, voglio tornare alla scuola pubblica ... nella mia vecchia città. Voglio aiutare i bambini di quella scuola a perseguire i propri obiettivi. E non sai quanto mi faccia male dover dire addio a tutto ciò, ma ti assicuro che..."

Sentii quelle parole e mi fece male. 

Mi faceva male e forse ero egoista ma non riuscivo più a concepire una vita senza lei, eppure lei sembrava preferire il lavoro -o missione come aveva detto lei- a me. 

Mi sentii pervaso dalla rabbia, e sgusciai via, lontano da lei.

Le tirai fuori tutto ciò che avevo dentro, le raccontai persino dell'arrivo del padre dei miei fratelli e lei parve sbigottita, si mise in piedi e cercò di raggiungermi. 

Posò le sue mani sulle mie mani tremanti. 

Ma non volevo sentire quel tocco punto. 

Ero arrabbiato, ero in preda a una tempesta e non avevo bisogno di essere consolato. Forse non mi ero sbagliato aveva fatto l'amore con me per dirmi addio nel modo più dolce, ma non avevo bisogno di quegli addii. Avevo bisogno di lei .

Tirai via le mani dalla sua presa e con calma la invitai a tornare a casa propria.

"Vuoi che me ne vada?" disse stranita.

Lo disse con la voce smorzata, sembrava offesa ma in realtà avrebbe dovuto solo mettersi nei miei panni e capire che stavo soffrendo e vederla andare via dalla città mi faceva male.

Dovevo farlo anche per lei. Dovevo avere coraggio. 

"Va via!" dissi è un po' lo feci anche per me.

Desiderami, Ma Fallo Ad Alta Voce!Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora