Prologo 🦋

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Mi sveglio in preda a sudori freddi, tachicardia e panico

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Mi sveglio in preda a sudori freddi, tachicardia e panico. Ciò che ho sognato non deve avverarsi. Eppure un atroce presentimento si fa strada in me. Forse è troppo tardi. Forse non riuscirò più a raggiungerti. No, devo tentare! Non posso arrendermi così! Non adesso che finalmente ti ho trovata!

Mi alzo dal letto e senza neppure infilarmi le scarpe, mi scaravento verso la porta del mio appartamento, la apro e corro fuori. L'idea di uscire a piedi nudi e senza neppure una maglietta addosso non è stata delle migliori, ma l'aria fredda del mattino di New York non fa altro che aiutarmi a sentire, perché tutto ciò che chiedo è sapere che quello che sto vivendo è reale e se prendermi un malanno può dimostrarmelo, allora ben venga.

Mi precipito giù per la tromba delle scale, poi fuori dal mio palazzo, infine giù in strada. Le piante dei miei piedi toccano l'asfalto gelido, ma io continuo a correre. Corro verso di te. Corro verso il tuo palazzo. Sembri ad un soffio da me, ti sento sempre più vicina ad ogni passo che faccio. Entro nel portone e nell'antro, scontrando involontariamente una signora anziana che invece sta uscendo e che si lamenta per la mia maleducazione, io però sono talmente sconvolto per ciò che ho appena visto in quel sogno... anzi, no, incubo, che mi dimentico anche le regole-base del convivere civile e non le chiedo neppure scusa. Corro. Corro a perdifiato, devo correre da te. Non ho altro tempo da perdere, sto rischiando di perderti e non posso fermarmi a parlare. Devo risparmiare il fiato per fare tutte queste scale, perché non c'è ascensore in questo diamine di palazzo!

Salgo in fretta i gradini che mi separano dal tuo appartamento. Raggiungo finalmente il penultimo piano. Non ho più fiato ora, ma non m'importa. Sento che sto per collassare per la fatica, ma non m'importa. Tutto ciò di cui m'importa sei solo tu.

Arrivo davanti alla porta di casa tua, quella porta che tante volte ho avuto il timore di toccare, alla quale non sono mai riuscito a bussare per paura di disturbarti. Ora invece sono qui e vorrei abbatterla, la prendo a pugni e grido il tuo nome. Una, due, quattro, dieci volte, non lo so più, ma tutto appare vano. La porta è chiusa a chiave, tu non ci sei. Non ci sei più.

Sono davvero arrivato tardi?

Poggio i palmi e la fronte contro il legno bianco, consumato, vecchio, freddo e ingrigito di quella barriera che mi separa da te: «Ti supplico, non mi lasciare!» mormoro singhiozzando.
Sì, proprio io mi ritrovo a singhiozzare, io che non piango mai, che non mostro le mie emozioni a nessuno, ma che invece pretendo di analizzare quelle dei miei pazienti al microscopio.
Nessuna risposta, solo il silenzio mi ascolta. Sembra diventare lui stesso un'entità da quanto riesco a percepirlo: pesante, solenne, tombale, crudele.

«Mi basterebbe solo un segno, un insignificante dettaglio che mi facesse capire che tu ci sei, che tutto quello che abbiamo vissuto insieme non sono esclusivamente miei ricordi. Ti prego...»

Poi d'improvviso, un fremito, un battito d'ali.
Mi volto e cerco frenetico con lo sguardo l'origine di quel flebile suono, poi la vedo, è lì, proprio davanti ai miei occhi, posata sul muro a destra della tua porta, vicino all'opalina che illumina il pianerottolo. Bella, misteriosa, ricca di sfaccettature, le ali marroncine, spruzzate di striature nere e bianche, il corpo ricoperto di peluria, le antenne nere che sembrano due piume. È lei, è la stessa falena che vedo da sempre, da quando tu sei apparsa quel giorno.

La Ragazza delle Falene (Junho)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora