L'ascensore

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Mi diede il suo casco della vittoria a Monza. Lo so perché quella gara la conosco a memoria e indossare quel casco era più che un privilegio per me.

Uscimmo dall'appartamento e lo aspettai davanti all'ascensore, mentre lui inseriva l'allarme della casa.

Entrammo nell'ascensore e incominciammo a scendere. Mi sentivo a disagio, odiavo stare negli ascensori con le persone, si creavano situazioni imbarazzanti, non sai dove guardare, se stai troppo vicino ad una persona... Era un momento che odiavo e che avrei voluto terminasse nel minor tempo possibile.

La sorte però non giovò a mio favore, l'ascensore si bloccò dopo due piani.

Tutto divenne buio, ci fu un rumore assordante e dopo il silenzio totale.

"Ci mancava solo questa oggi" disse Pierre accendendo la torcia del suo telefono. "Non solo piove e c'è un tempaccio ma l'ascensore ha deciso di non collaborare... merde! Non ci credo! C'era palesemente scritto che fermavano l'ascensore per 30 minuti per manutenzione elettrica e noi ci siamo dentro, di male in peggio. Non hai letto il cartello fuori Alya?". Pierre parlava, ma io non connettevo più, mi mancava il respiro.

"Alya? Ti senti bene?" mi guardava negli occhi. Aveva dei bei occhi, avrei dovuto dirglielo ma mi mancava il fiato, mi sentivo un buco nel petto e tutto iniziava a girare. "Alya! Alya guardami." Pierre mi prese il viso tra le mani e spostò la mia attenzione su di lui. Mi tremavano le gambe, non sentivo più le ginocchia.

"Ehi, occhi su di me okay? Va tutto bene, non succederà niente, stai al sicuro" mi accarezzò la guancia per rilassarmi, ma non sentivo niente, ero pietrificata. "Stai avendo un attacco di panico, ma va tutto bene, siediti un attimo e insieme a me fai dei lunghi respiri, okay?". Era così premuroso. Non era per niente quel Pierre altezzoso dell'appartamento, era completamente diverso.

Mi sedetti a terra e Pierre si posizionò di fronte a me.

"Guardami. Ora respiriamo insieme. 1...2...3...ispira" respirai insieme a lui e man mano i miei polmoni ripresero vita. Pierre mi teneva entrambi le mani, ci trovavamo uno di fronte all'altro con le ginocchia che si toccavano.

Sapeva cosa stava facendo: in poco tempo era riuscito a calmarmi.

"Ti senti meglio?" mi chiese, aumentando la distanza fra di noi e poggiando la schiena sulla parete di fronte alla mia.

"Si. Dove hai imparato a farlo?" chiesi affannata, come se avessi appena finito una maratona. Mi sentivo stanca e non era la prima volta che avevo attacchi di panico. Soffrivo di claustrofobia, questo era certo, e odiavo gli spazi chiusi, o perlomeno starci troppo tempo all'interno. Preferivo l'aria fresca.

Pierre mi guardò, voleva dirmi qualcosa, ma rispose in maniera evasiva. "Per il lavoro che faccio, devo saper gestire gli attacchi di panico." Ed eccolo lì, mr. Gasly scorbutico e apatico, lo stesso che avevo conosciuto alla cena e lo stesso dell'appartamento.

Forse avevo solamente immaginato quel suo lato premuroso. Ma in fin dei conti che mi interessa? Dovevo mantenere una certa distanza da lui, comportarmi bene ed eseguire il mio lavoro nella maniera più impeccabile. Ero entrata da poco in F1 e dovevo rimarci per il resto dei miei giorni.

"Grazie" era l'unica cosa che riuscii a dire. Ero ancora destabilizzata e non avevo intenzione di fargli altre domande.

Rimanemmo seduti ed erano passati solo 5 minuti dal mio attacco di panico. Saremmo dovuti rimanere rinchiusi lì dentro per altri 25 minuti e se solamente ci pensavo, volevo morire nella maniera più veloce. Incominciai a giocare con la cintura del giubbotto di pelle e successivamente con l'anello che indossavo al pollice. Non riuscivo a stare ferma, volevo alzarmi, uscire dall'ascensore e mangiare un bel cornetto alla crema, o forse un panino, erano quasi le 11, il mio stomaco soffriva abbastanza e ripensava ai cereali Nesquik che avevo mangiato al mattino.

Box box// Pierre GaslyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora