La scoperta

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Ariel durante la notte non riuscì a dormire, si alzò ben presto, ma lei non sapeva che neanche Miguel non aveva chiuso occhio. Quando si fecero le otto e mezzo era pronta per andare con lui al processo, ma del suo professore nessuna traccia. La ragazza si preoccupò, perché non era da lui fare tardi, era sempre stato puntuale come un orologio svizzero. Così provò a chiamarlo sul suo cellulare, ma risultava non raggiungibile. Era disperata, ricordò quel giorno del suo compleanno, quando aspettava suo padre. Così decise di correre dal suo amato.

Ma prima di uscire di casa abbracciò sua madre, dicendole: «Mamma, ora andrò al processo in tribunale, per testimoniare su papà. Ma prima devo correre a casa di Miguel, ho paura che gli sia successo qualcosa!» La donna era seduta sul divano, stava fissando il quadro di suo marito appeso alla parete nel salotto. Clara non dava segni di vita, i suoi occhi castani erano persi nel vuoto. Ariel si spaventò, pensando che sua madre era di nuovo caduta nel tunnel della depressione, «Mamma, riesci a sentirmi?» Le domandò agitata.

La donna dopo qualche istante si girò verso sua figlia, la guardò con uno sguardo disperato, «Riportalo qui, riporta Daniel da me!» Le percepì.
Ariel con rammarico, le diede un bacio sulla guancia e andò via di corsa.

La ragazza si recò alla fermata dell'autobus, appena quest'ultimo arrivò salì immediatamente, non accorgendosi che in fondo a tutto era seduto Samuel Sabbá. Il ragazzo fissava la chioma rossa della sua amica, chiedendosi dove stesse andando. Così con coraggio le andò vicino, sedendosi accanto a lei. Ariel appena lo vide si spaventò, aveva gli occhi rossi e dilatati, subito capì che aveva appena fumato un altro spinello.

«Cosa ci fai qui? Cosa vuoi?» Gli domandò impaurita. «Sto andando in un posto magico... e tu verrai con me!» Le rispose il ragazzo.
«Io con te non verrò da nessuna parte, scordatelo! Lasciami in pace!»
Sam non diete peso alle parole di Ariel, così avvicinandosi sempre più le palpò il seno. La ragazza istintivamente gli diede uno schiaffo e uno spintone, il ragazzo cadde a terra con l'autobus ancora in moto, i passeggeri si limitarono subito ad aiutarlo a rialzarsi.

«Che cosa sta succedendo lì dietro? State ai vostri posti per favore!» Esclamò l'autista. Ma nessuno disse nulla, nemmeno coloro che avevano visto tutta la scena. Arrivata alla sua fermata, Ariel scese di corsa e subito l'autobus partì. Samuel rimase a guardarla dal finestrino, seguendola con lo sguardo.

Giunta in via Pedro Doll, si recò immediatamente nel palazzo che ospitava l'appartamento del suo professore, attraversò l'atrio e chiamò
l'ascensore, dove era occupato da altre persone che si recarono in altri piani. Per Ariel quella salita al decimo piano era interminabile. Il suo cuore batteva all'impazzata, le sue gambe cominciavano a tremare, ma finalmente arrivò il tanto atteso decimo piano e uscì come un razzo dall'ascensore. La porta dell'appartamento di Miguel era semiaperta, così la fanciulla si limitò ad entrare.

«Miguel, Miguel amore mio dove sei?» Pronunciò a voce alta, in attesa di una risposta. «Ariel, amore mio sono qui... ti prego aiutami!» La voce del professore rimbobava tra le pareti dell'appartamento. La ragazza capì che la voce dell'uomo proveniva dalla stanza segreta del suo studio, così si recò di corsa. Il passaggio segreto nella libreria era aperto a metà, così si intrufoló dentro.

Quello che vide fu terrificante, era una stanza umida e fredda, con una luce fusa proveniente da una piccola lampadina appesa al soffitto. Ma ciò che la colpì di più fu quello che c'era dentro, vide degli strumenti di tortura collocati alla lunga parete della stanza. Poteva sembrare un'esposizione di un luogo che poteva essere considerata una camera degli orrori della storia giudiziaria, e di tutta una serie di diavolerie usate dall’inquisizione per strappare confessioni. Miguel era legato su una sedia antica in legno, sopra di esso penzolava una ciotola di ferro, dalla forma tondeggiante, uguale alla sua testa.

Mentre il professore guardava la sua allieva davanti a sé, vide una ragazzina dai lunghi capelli rossi, con due occhioni azzurri che sapevano perforare l'anima, erano limpidi come l'acqua di rugiada, pronti ad esplodere in un mare di lacrime. Il suo sguardo era impaurito, la piccola Ariel aveva lo stesso sguardo di quel ormai lontano: 22 maggio del 1986.

Lei, vide davanti a sé, un uomo brizzolato e stanco, seduto in un angolo su una sedia in legno, terribilmente pericolosa. Non era più l'uomo che conosceva, non aveva più quello sguardo arrogante da cui si era innamorata, i suoi occhi azzurri come l'acqua cristallina dell'oceano, erano diventati grigi come un mare in tempesta. Dopo qualche istante la ragazza riuscì a liberare il suo uomo che si alzò di scatto, allontanandosi da quella maledetta sedia che anche se ormai era fuori uso da moltissimo tempo, non permetteva nulla di buono. Ariel si scaraventò tra le sue possenti e forti braccia, quelle stesse che la facevano sentire al sicuro. Miguel era circondato dal suo tenero abbraccio, così caloroso che gli riscaldava il cuore, lo faceva sentire protetto.

«Miguel, cosa sono questi strumenti così terrificanti?» Gli chiese Ariel, anche se già poteva immaginare cosa fossero.

«Erano gli strumenti di tortura di tuo padre, mia piccola Ariel. Non so perché comprava questa roba, ma ci spendeva molti soldi vicino e questo gli è costata la vita» la ragazza scoppiò a piangere tra le braccia del suo amato, lui la strinse forte a sé trattenendo le lacrime.

Dopo qualche minuto corsero via per recarsi in tribunale, erano le 9:30, dovevano sbrigarsi o il processo sarebbe iniziato senza di loro.
Quando i due scesero al parcheggio dell'auto, trovarono una spiacevole sorpresa. «Brutto bastardo mi ha bucato i pneumatici della mia Mini Cooper, ha usato una lama di un coltello molto appuntita per farlo!» Sbraitò nervosamente Miguel.

«E ora cosa facciamo professore?! Non possiamo aspettare un mezzo di trasporto, non faremo in tempo!» Si lamentò Ariel. Ma Falabella aveva un asso nella manica, non aveva solo quella di auto.

«Non ti preoccupare piccola, non è un problema! Prenderemo l'Audi, è in un garage qui vicino che ho affittato» le disse l'uomo facendole l'occhiolino.
«Sei un uomo dalle mille sorprese!» Esclamò la ragazza. Così con un sorriso, Miguel la prese per mano e si diressero a pochi metri dal palazzo.
Arrivarono nel garage in meno di cinque minuti, salirono in auto e Falabella sfrecciò come il vento.

Fecero appena in tempo, il processo non era ancora iniziato. L'avvocato Sabbá rimase sbalordito appena gli vide. Ariel e Miguel si sedettero accanto all'avvocato della famiglia Santos, che fece un sospiro di sollievo vedendoli arrivare.
Dopo qualche minuto entrò il Cancelliere e annunciò: «In piedi! Entra il Giudice Fernando Horn».
Il Giudice, con aria di cordiale sufficienza, fece cenno con la mano di sedere. Era un uomo su una sessantina di anni, alto e magro ed era abbastanza affascinante, la sua toga nera era due volte più grande di lui. Aveva una folta barba bianca e capelli grigi, i suoi occhi erano cerulei chiari, con uno sguardo burbero e profondo, che a chiunque avrebbe fatto paura.

Si sedette davanti agli imputati ed esordì: «Oggi 4 marzo 2006, siamo di nuovo qui per testimoniare sul noto caso del giudice Daniel Santos, secondo L’art. 2 del medesimo Trattato». Un mormorio di voci serpeggiò nell’aula di tribunale, il giudice Horn battè violentemente il martello di legno, ed ordinò alla giuria di rimanere in silenzio. Subito dopo fece una pausa calcolata, poi prese un fascicolo che aveva davanti a sé e lo sfogliò lentamente. Ariel era preoccupata, impaurita e non sapeva a cosa andava incontro, ma il sorriso di incoraggiamento di Miguel le fece capire che non aveva nulla da preoccuparsi.

La ragazza invisibileDove le storie prendono vita. Scoprilo ora