3: La grazia e la giustizia

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Tw: sessualità,
violenza fisica
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La donna sopra di lui giunse all'estasi con un grido acuto nell'istante stesso in cui lui le assestava l'ultima spinta, rilasciandosi in lei e poi lasciando cadere le braccia stanche giù dal letto fino a toccare il pavimento di legno del bordello.

Chiuse gli occhi e respirò forte, contestualmente sentendo la donna sollevarsi e rimettersi in piedi per passarsi un limone in mezzo alle gambe mentre, con l'altra mano, si versava una tazza fumante di una tisana paglierina, uno strano rituale che aveva imparato a conoscere.

«È stato di vostro gradimento, mio signore?» gli domandò la ragazza, obbligandolo a riaprire gli occhi.

Seguendo il consiglio di Matteo che aveva già avuto esperienze con lei, per l'occasione se l'era scelta rossa con i boccoli e la pelle candida, giovane ma sufficientemente esperta del mondo per regalargli il rilassamento di cui aveva bisogno. La donna, sebbene in realtà dovesse avere solo qualche anno in più di lui, si chiamava Gloriana e faceva la prostituta nel lupanare sito ai bordi esterni della cinta di mura attorno ad Oria, città in cui erano stanziati ormai da un po' di settimane nell'attesa che il resto dell'esercito cristiano si ricompattasse e potessero tornare a muoversi verso Bari tutti assieme. Non era previsto che i tempi fossero così lunghi, in realtà, ma la pioggia abbondante da un lato e l'inattesa reazione della città dall'altro li aveva ampiamente aumentati.

Si erano attesi, infatti, che Oria opponesse resistenza, che fosse necessario assediarla e sobillare i suoi abitanti contro la guarnigione musulmana in città, stanandoli poi uno per uno dalle vie pietrose. Invece non era accaduto nulla di tutto ciò perché, al loro arrivo, la città aveva spalancato le porte e si era consegnata spontaneamente, favorendo la loro occupazione ed il loro insediamento.
A quel punto, fatte le dovute pulizie, era subentrata l'attesa snervante, un attesa che per lui era stata ancor più lunga perché accompagnata da quel senso di incertezza che solo la guerra sapeva dare a chi la combatteva. Perché a Matera erano andate tante persone che conosceva, persone che sperava di poter rivedere e che non fossero cadute in battaglia: Aureliano, che dalla lontana Umbria era cresciuto e divenuto cavaliere con lui e Matteo al castello di suo padre; ser Brunetto Rodelchi, l'uomo che lo aveva visto crescere dagli smerli del suo castello e che lo aveva accolto quando era arrivato alla corte di suo padre per la prima volta dopo la sua infanzia alla villa di famiglia; ser Adelchi da Varia, pupillo di suo padre e ultimo discendente della casata che controllava le terre che aprivano la strada verso Roma nonostante i ripetuti attacchi saraceni avessero determinato l'abbandono del principale insediamento; ser Agostino, ser Pin di Caledonia e tanti altri di cui attendeva il ritorno, altri fra i quali annoverava anche alcune fra quelle liceziose fanciulle che seguivano palmo palmo i loro passi come i corvi gli animali prossimi alla morte onde banchettare con gli avanzi.

E poi c'era Simone.

Non sapeva per quale ragione, non riusciva a spiegarsene la ragione in realtà, ma per quello smilzo arciere occitano sentiva un trasporto particolare, come se ci fosse qualcosa che li legava pur se non si erano visti mai prima di allora. Era come una corda, una trama di fili d'oro e ferro che in qualche maniera li connetteva e avevano preso a tirare tutti assieme quando lo aveva visto per la prima volta nella polvere. Era tornato indietro spinto dall'onere della cavalleria e se ne era preso cura come si stabiliva un cavaliere del suo rango dovesse fare verso qualcuno che aveva offeso. Eppure da allora non era più riuscito a liberarsi di quella sensazione, non gli era riuscito ignorarla anche se non la comprendeva. Probabilmente, si raccontava quando si soffermava a pensarci, dipendeva dalla storia curiosa di quel ragazzo che diceva di esser stato portato da un torrente ad una strega che lo aveva cresciuto e poi di esser accorso a quella battaglia per mondarsi l'anima da un delitto commesso. Il franco ci credeva troppo a quelle parole mentre le diceva, ragion per la quale non poteva essere tutta un'invenzione la sua e, se non era un'invenzione, allora lui doveva trovarsi di fronte a qualcuno di speciale, ad un essere in qualche maniera scelto da Dio stesso affinché facesse qualcosa di specifico per il mondo come si narrava lo fosse stato uno dei suoi lontani antenati il cui ricordo era ormai smarrito fra le brume della leggenda. E se era così, se davvero quel ragazzo aveva qualcosa da raccontare al mondo per conto dell'Artefice Ultimo di tutte le cose, allora lui voleva essere il primo a sapere cosa e così si giustificava quel suo volergli ronzare attorno come un'ape attorno al suo fiore.

La ballata del cigno e dello scorpione Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora