9: La caccia selvaggia

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«E tu cosa ci fai qui?» gli si rivolse non appena lo vide fare la sua apparizione alla postazione dove addestrava gli arcieri di Oria e dove si allenava lui stesso, sebbene dentro di lui intendesse impiegare ben altre parole.

Era passata una settimana dalla sera della festa, sette giorni da quando Manuel lo aveva sbattuto al muro e lo aveva baciato con impeto, sommergendolo sotto al peso di una passione che non credeva l'altro potesse avere, e sette giorni da quando lo aveva lasciato lì, abbandonato come un uccello incapace di volare.

Per sette interminabili giorni gli si era negato, scomparendo letteralmente dalla sua vita ed evitandolo come si evitava un lebbroso, stavolta letteralmente volatilizzandosi così che non avesse modo o maniera di vederlo neppure per caso come era invece capitato la volta precedente. Per evitarlo aveva finanche saltato la messa della domenica, destandosi col canto del gallo per prendere quella dell'aurora ed evitare così quella mattutina che li avrebbe visti quantomeno passarsi accanto e scambiarsi un'occhiata fugace.

Da principio aveva pensato ad una mera casualità, ad un incomprensibile scherzo architettato da Dio nel suo ineffabile disegno.
Poi era subentrata la comprensione e si era suo malgrado sforzato di capirlo, perché in fondo quello che era capitato era qualcosa di enorme, una cosa che forse neppure lui aveva concepito del tutto nella sua mente e che, per certo, aveva colpito il maggiore e lo aveva sconvolto. Del resto, e lui questo lo sapeva bene, il mondo non era gentile con quelli che si concedevano simili libertà e sapeva per certo che non fosse usuale per il cavaliere baciare qualcuno come lui: Manuel era noto per essere uno spezzacuori, un cavaliere che le donne amavano e che lui amava in contraccambio e le sue frequenti visite al bordello della città dimostravano tutto ciò. Dacché ne sapesse lui il cavaliere era stato con decine di donne, passando di letto in letto e soddisfacendo i lombi di tutte coloro che in quel letto stavano. Baciare un uomo, un suo soldato e per giunta prendendo l'iniziativa perché "era troppo forte per lui" doveva averlo sconvolto come quando era toccata a lui la medesima sorte.

Ma poi era subentrata la rabbia verso quel silenzio punitivo, una rabbia rivolta principalmente verso sé stesso e verso la sensazione di aver distrutto tutto come suo solito, polverizzando in un sol colpo quel che faticosamente aveva eretto. Infine, come fosse acqua che dalle viscere della terra affiorava, quel sentimento rovente si era rivolto contro alla sua stessa fonte, a quel giovane insieme di muscoli che era sua delizia e tormento al medesimo tempo.

Se si fosse limitato solo a non parlargli più lo avrebbe a malincuore accettato. Se si fosse limitato ad evitarlo per qualche giorno per poi opporre un silenzio ostinato quando si incrociavano casualmente lo avrebbe accettato. Ma non riusciva ad accettare serenamente quella fuga, non riusciva ad accettare di buon grado che lo avesse cancellato e, soprattutto, adesso non riusciva a tollerare che fosse ricomparso lì come se nulla fosse, quasi che il tempo non fosse passato.

«Ti ho chiesto che cosa ci fai qui?» ripeté il suo interrogativo, questa volta con una punta di durezza nella voce, osservando con attenzione il ragazzo.

Era a disagio, lo notò subito questo, e non pareva affatto il Manuel a cui era avvezzo. In genere ser Manuel Ferro si ergeva sul mondo con fare spavaldo, pienamente consapevole di essere nobile, di essere bello e di essere fonte di ammirazione per coloro i quali incrociavano il suo passaggio. Ora invece quella magnificenza e quell'energia parevano essersi dileguate, lasciando in loro vece un semplice ragazzino che rifuggiva il suo sguardo e metteva su l'espressione mogia di chi sa che ha perduto qualcosa a cui teneva e non è più in grado di rammentare dove essa è stata posta. Lo stesso suo abbigliamento tradiva in un certo senso quel cambio di impostazione, perché quel giorno era vestito nella maniera più semplice che lui potesse immaginare, ossia con un semplice paio di calzoni scuri coperti da una camicia del medesimo colore, come sempre sfrontatamente aperta sul petto per un forse pragmatico desiderio di contrastare il calore. Se non fosse stato a tutti chiaro chi era in realtà quel giovane lo si sarebbe ben potuto confondere con un popolano qualsiasi, che senza spada, mantello ed altri orpelli solo la ricercatezza degli abiti e il fatto che non fosse emaciato permetteva la distinzione.

La ballata del cigno e dello scorpione Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora